Padova, domenica 3 luglio 2022 – Sembra che a rovinare il pensiero critico nel mondo del salto ostacoli sia il calcio. Il calcio – con i suoi dogmi, le sue mentalità, i suoi usi e costumi, i suoi pregiudizi e le sue consuetudini – pare essersi impadronito dei processi mentali anche delle persone che non lo seguono o che perfino lo ignorano. Come un veleno che inquina le falde acquifere di un intero Paese. Altrimenti non si spiega come mai all’indomani della nostra drammatica esperienza in Coppa delle Nazioni a Budapest si siano già sollevate le richieste di dimissioni… dell’allenatore. Come nel calcio, appunto: una squadra va male? Ok, si licenzia l’allenatore. Certa opinione pubblica vorrebbe fare la stessa cosa: abbiamo fallito a Budapest? Via Marco Porro. Infatti è praticamente garantito che se Marco Porro venisse licenziato, oppure dovesse rassegnare le dimissioni, automaticamente comparirebbero sulla scena quattro cavalli con i quali l’Italia vincerà di sicuro l’ormai imminente Campionato del Mondo di Herning…
I cavalli, certo. E i cavalieri, ovviamente. Forse chi critica il presente descrivendolo come il momento più negativo di sempre del salto ostacoli azzurro contrapponendolo a un passato glorioso (bisognerebbe però identificare le date di questo passato glorioso: tanto per capire di cosa si sta parlando… ) non ricorda – oppure non sa, oppure non vuole ricordare – che i decenni degli anni Ottanta e Novanta (e perfino la seconda metà dei Settanta) compongono un arco di tempo durante il quale l’Italia del salto ostacoli ha vissuto in assoluto il buio più tenebroso e inquietante della sua intera storia agonistica, dopo i fasti del trentennio Cinquanta e Sessanta e primi Settanta legati fondamentalmente al nome di tre personaggi quali i due fratelli d’Inzeo e Graziano Mancinelli (campioni fenomenali non solo in sella, ma anche nella capacità – o possibilità – di creare un’organizzazione funzionale al proprio sport). Eppure la fine degli anni Settanta, e poi gli anni Ottanta e Novanta, hanno avuto come protagonisti cavalieri italiani magnifici e ammirati in tutto il mondo: i quali tuttavia non hanno vinto… oltre che vittime del confronto con i loro straordinari predecessori, a dimostrazione del fatto che non basta essere un grande campione, nel nostro sport, per vincere. Perché ‘da noi’ c’è una notevole quantità di variabili determinanti ai fini del risultato agonistico, tra le quali una – più determinante delle altre – che si chiama cavallo… Già, lui: il nostro compagno di sport. Senza di lui perfino il più bravo tra i più bravi nulla può, a differenza di quanto accade negli altri sport in cui l’atleta impegna solo sé stesso o al limite sé stesso più un attrezzo, cioè un oggetto inanimato e prodotto in serie.
I cavalli. A differenza di quanto pensa qualcuno, dire che oggi non abbiamo cavalli non vuol dire dare la ‘colpa’ dei nostri fallimenti alle povere creature innocenti che vanno in campo sotto la sella dei loro cavalieri: vuol invece semplicemente dire che in questo momento il nostro parco cavalli non è all’altezza. In questo momento, non in assoluto: la storia dello sport equestre è piena di esempi di cavalli che sono cresciuti enormemente nel loro livello tecnico e agonistico dopo il giusto periodo di esperienza e maturazione. Sta di fatto che oggi come oggi noi non abbiamo cavalli che ci possano garantire una competitività di massimo livello (dicendo ciò prescindiamo dal risultato di Budapest: nella seconda manche l’Italia è stata la migliore squadra in campo, il che vorrà pur dire qualcosa… ). Certo: sulla sella dei cavalli c’è ovviamente un cavaliere, il quale altrettanto ovviamente ha delle responsabilità non solo in relazione al momento della gara ma anche circa preparazione, allenamento, gestione di quello stesso cavallo nel lungo arco di tempo che precede l’evento agonistico. Però: nel quadriennio 2016-2019 con gli stessi cavalieri di oggi abbiamo ottenuto risultati magnifici, risultati che ci mancavano da decenni (decenni, non anni… ). Perché?
La realtà ci dice che senza un cavallo che in squadra garantisca quasi al cento per cento un doppio zero non si ottengono risultati importanti. Ancora una volta ce lo dimostra l’esperienza vissuta: dopo quella di bronzo olimpica del 1972 a Monaco, la prima medaglia in un campionato internazionale (e a tutt’oggi anche l’ultima… ) l’Italia l’ha vinta trentasette anni più tardi nel Campionato d’Europa di Windsor 2009 (argento) grazie a una squadra in cui Natale Chiaudani e Seldana ci facevano partire già con 0/0 in cassaforte. Facendo un passo indietro, la finale mondiale di Coppa delle Nazioni 2002 a Donaueschingen l’Italia l’ha vinta con una formazione in cui Gianni Govoni e Havinia erano un doppio zero sicuro. E poi arriviamo ai giorni nostri, quando la vittoria della Prima Divisione nel 2019 (risultato mai ottenuto in precedenza) l’abbiamo conquistata con in squadra una macchina da doppio zero come il binomio Luca Marziani/Tokyo du Soleil… Ma potremmo allargare il campo dicendo che i favolosi successi del quadriennio 2016-2019 li abbiamo ottenuti quando Lorenzo de Luca, Alberto Zorzi, Bruno Chimirri, Piergiorgio Bucci, Luca Marziani, Emilio Bicocchi, Emanuele Gaudiano, Giulia Martinengo Marquet, Massimo Grossato, Paolo Paini (etc etc) hanno montato probabilmente i migliori cavalli della loro intera carriera.
La realtà è quindi molto semplice. Potremmo cambiare commissario tecnico mille volte, potremmo provare tutti i cavalieri possibili e immaginabili, ma nulla si modificherà fin tanto che non si metta in moto un meccanismo virtuoso che ci permetta di avere a disposizione una base composta da molti cavalli e tutti di qualità. Ovviamente gli uomini e le loro decisioni sono importanti: e di certo anche Marco Porro – come del resto i cavalieri di volta in volta impegnati in campo – ha le sue responsabilità, così come prima di lui le hanno avute Duccio Bartalucci e Roberto Arioldi… Ma senza cavalli i miracoli non si fanno. Oggi abbiamo un buon numero di soggetti che devono ancora completare la loro maturazione tecnica e agonistica: ma non è ovviamente detto che quando tale processo sarà completato si tramuteranno tutti in fuoriclasse invincibili…
Non c’è quindi nulla da fare? Dobbiamo rimanere impotenti nell’attesa che qualcosa accada come regalo divino? No, ovviamente. Il lavoro che va fatto è quello di cui si parla ormai da decenni e decenni: programmazione sui cavalli giovani e realizzazione di un meccanismo che in qualche modo vincoli i cavalli migliori almeno per un certo periodo di tempo al loro cavaliere. Un vincolo che però deve mettere le radici molto prima che per quel tale cavallo arrivi un’offerta di acquisto di milioni di euro: come si fa infatti a non vendere un soggetto per il quale vengono proposti – esempio – tre milioni di euro, cinque milioni di euro, sette milioni di euro? Anche perché a proposito di vendite c’è da notare un aspetto particolarmente significativo della faccenda: tutti i migliori cavalli che abbiamo venduto ad acquirenti stranieri non solo non hanno migliorato in alcun caso il loro rendimento, ma spesso sono letteralmente spariti dall’orizzonte agonistico!
Sotto il profilo della qualità ma soprattutto della quantità offerta dal nostro parco cavalli, il confronto con l’estero è eloquente. In Italia non abbiamo né mecenati come Madeleine Winter Schulze (solo per fare un esempio) che da sola ha sostenuto – e tuttora sostiene – buona parte del salto ostacoli, del dressage e del completo in Germania; né imprese commerciali tipo quelle di Stephan Conter in Belgio, di Jan Tops in Olanda e di Paul Schockemoehle in Germania; né una realtà allevatoriale – intendendo sia allevatori sia stallonieri – come quelle di Francia e Germania (ma anche Belgio e Olanda), dove il numero di puledri che nascono in un anno è infinitamente superiore a quello registrato da noi. Da noi inoltre non ha mai preso piede il consorzio di proprietà, come invece accaduto in Olanda a lungo su cavalli che hanno ottenuto risultati portentosi.
Insomma, il ragionamento è tanto semplice in teoria quanto difficilissimo da mettere in pratica: se vogliamo diventare una nazione continuativamente competitiva dobbiamo assolutamente trovare la maniera di alimentare e incrementare senza sosta il serbatoio-cavalli. Altrimenti andremo avanti così: con momenti di exploit legati alla coincidente e fortunata presenza contestuale di almeno tre cavalli importanti al meglio della loro carriera sportiva, e poi una serie di fallimenti continui. I fallimenti producono una pluralità di effetti perversi e quindi malsani, oltre al risultato agonistico negativo di per sé: alimentano le conflittualità, creano insicurezza, mettono tutti contro tutti, generano polemiche… Cose di cui non abbiamo proprio alcun bisogno, visto che sembrano connaturate al nostro essere… Bisognerebbe invece avere la forza di mettere da parte tutto questo: e unire energie e risorse per costruire una situazione che nel lungo periodo dia soddisfazione a tutte le componenti del mondo del nostro sport. La via è una sola: cavalli. Il che vuol dire lavorare e progettare sui soggetti giovani, ampliare la base dei cavalli da destinare all’agonismo di alto livello, cercare di risultare in tutti i modi attrattivi per investitori e investimenti. Facile da dire, difficilissimo da fare: ma il nostro vero unico problema è questo.