Austin, 13 giugno 2020 – E’ stata una pariglia di cavalli grigi attaccati a un carro funebre in stile molto americano ad accompagnare il corpo di George Floyd nel suo ultimo viaggio, quello verso lo Huston Memorial Gardens dove è stato tumulato il 9 giugno scorso.
Floyd, un rapper afroamericano di 46 anni con precedenti penali per droga, furti e rapine a mano armata è morto a Minneapolis dopo che un agente di polizia, Derek Chauvin, gli ha tenuto premuto il ginocchio sul collo per più di 8 minuti, nonostante Floyd gli chiedesse di smettere perché stava soffocando.
Chauvin (18 le precedenti denunce a suo carico, ora accusato anche di omicidio di terzo grado, nonché di omicidio colposo di secondo grado) smise solamente quando glielo chiesero i paramedici, arrivati quando ormai Floyd non si muoveva più.
La polizia era intervenuta dopo la richiesta di un negoziante che riteneva di essere stato pagato da Floyd con una banconota da 20 dollari falsa.
Dopo la morte di Floyd i video girati da chi assisteva alla scena e diffusi in rete hanno provocato proteste e rivolte violente non solo negli States ma in tutto il mondo.
Speriamo che ora almeno il suo corpo trovi pace: ma non c’è pace senza giustizia, come recita il motto di Black Lives Matter (letteralmente: le vite dei neri contano), movimento attivista che lotta contro il razzismo.
E dire che già partendo da questa pariglia potremmo trarre una briciola di filosofia spicciola: i cavalli grigi, come sapete tutti, vengono impropriamente definiti bianchi dai non addetti ai lavori ma in realtà hanno la pelle nera ricoperta da peli depigmentati.
Insomma, il modo in cui siamo colorati di fuori è solo una convenzione, un dettaglio non solo trascurabile ma anche ingannevole: possibile che non riusciamo a non dargli importanza?
E’ quello che abbiamo dentro a contare.