Bologna, 25 giugno 2021 – Un tranquillo villaggio di nativi attaccato senza giustificazione da un colonnello di cavalleria degli Stati Uniti.
La battaglia di Little Bighorn è nota per la morte del colonnello George Armstrong Custer, già punito per indisciplina dagli alti ranghi dell’esercito Usa.
Un suo collega lo descriveva come salito ai vertici della carriera militare «camminando sulla schiena dei suoi soldati caduti in battaglia».
Custer venne massacrato dalla legittima difesa dei Lakota, Cheyenne e Arapaho che aveva assalito con il suo 7° Cavalleggeri.
Uno dei pochi sopravvissuti di quella giornata era Comanche, il castrone baio del capitano di origine irlandese Myles Keogh.
Comanche aveva un carattere molto tranquillo e placido, non diede mai segno di conservare brutti ricordi causati dagli episodi violenti in cui era coinvolto per mestiere.
Già ferito più volte nella sua carriera di cavallo di carica superò anche l’eccidio del 25 giugno 1876 grazie alle cure attente e particolari che gli furono prestate.
Oltre a molti errori tattici (per non parlare degli orrori morali), Custer in questo ultimo episodio della sua vita ha anche la colpa di aver inutilmente stancato uomini e cavalli ordinando marce forzate.
Il tenente colonnello Elwood Nye, del Corpo Veterinario, definì il modo in cui Custer usò i cavalli a Little Bighorn come “abuso”.
Che ci piaccia stare dalla parte dei cowboy o degli indiani, di fronte a un vecchio film, non ha nessuna importanza.
La storia, al di là di ogni giudizio morale, ha chiaramente definito Custer come un pessimo ufficiale: per la cronaca, era riuscito l’ultimo dal suo corso a West Point.
Curiosità: a Little Bighorn c’erano anche diversi soldati e ufficiali italiani, arruolatisi per diversi motivi nell’esercito americano.
Anche il cavaliere di Comanche, il capitano Keogh, aveva legami con l’Italia: aveva servito nell’esercito del Papa in Vaticano durante le guerre risorgimentali per l’Unificazione d’Italia, nel 1860.
https://youtu.be/lL0zDtHGgDA