Oggi non è un giorno qualunque. Oggi è sabato 27 gennaio 2024.
Sabato 27 gennaio 1945, quattro atterriti ufficiali a cavallo dell’avanguardia del fronte polacco degli alleati si trovarono davanti al filo spinato di Auschwitz. Tra la fitta nebbia e l’incredulità, il loro sguardo si poggiò su una distesa di ammassi di cadaveri sporcati dalla neve. Da quel momento, oggi è la Giornata della Memoria, perché esistono atrocità che non possono essere dimenticate.
Solitamente è la vita dei cavalli a dipendere ed intrecciarsi con la storia dei singoli uomini, questa volta fu il contrario.
“A noi parevano mirabilmente corporei e reali, sospesi (la strada era più alta del campo) sui loro enormi cavalli, fra il grigio della neve ed il grigio del cielo” con queste parole Primo Levi ricorda i quattro ufficiali che si trovò davanti intorno alle 12:00 quel 27 gennaio di 79 anni fa. Nel pomeriggio arrivarono tutte le truppe per liberare il campo di sterminio.
Possiamo solo lontanamente immaginare cosa abbiano rappresentato quei quattro enormi cavalli per Primo Levi, quando li vide avvicinarsi. Non erano solo cavalli, erano la testimonianza che esisteva ancora un mondo oltre il filo elettrico, esisteva qualcosa oltre Auschwitz. Non necessariamente la vita, perché la vera vita non potrà mai più tornare dopo essere stati internati nei campi di sterminio. Ci potrà essere la sopravvivenza, si ricreeranno gli affetti, ma non ci sarà la prospettiva del futuro, la fiducia verso il prossimo e il sentimento di sé stessi. Il senso di una caducità incombente accompagnato dal terrore verso una violenza immotivata, la paura del possibile ritorno di una nuova caccia all’uomo offuscheranno per sempre l’anima di quei pochi sopravvissuti al programma di sterminio nazista. La morte dell’anima. Si dice che dopo Auschwitz non possa più esistere un Dio, figuriamoci un uomo.
I cavalli che arrivarono ad Auschwitz quel giorno furono la testimonianza che ancora esisteva la vita, ma ci sono state altre occasioni in cui hanno, fortunatamente, rappresentato la salvezza. La salvezza dai campi di sterminio. Ed è questa la storia, nascosta ma vera, di Johannes Fromming, celebre guidatore tedesco delle corse al trotto, che ebbe il coraggio di decidere che i suoi cavalli sarebbero stati un rifugio per alcuni cavalieri ebrei tedeschi.
I cavalli e la salvezza, conosciamo bene questa analogia. Chi di noi non è stato salvato almeno una volta dai cavalli? I cavalli nella Storia e nelle storie di tutti noi hanno da sempre rappresentato un valore, alcune volte salvezza, altre speranza, talvolta rifugio.
In questo caso furono un vero e proprio rifugio dalla morte per alcuni cavalieri ebrei tedeschi che si trovarono disgraziatamente immersi nella nebbia della follia della Germania e del mito della razza. Johannes era all’epoca forse il più grande guidatore del Mondo nelle corse del trotto, tanto che fu per ben 11 volte campione tedesco, ma non solo, vinse 3 volte il prestigioso Prix d’Amerique, si è aggiudicato oltre 5.500 corse ed a lui che è stato intitolato un memoriale che si corre ancora oggi, ogni anno, all’Ippodromo di Amburgo. Ebbene, proprio lui, un personaggio pubblico negli anni della Seconda Guerra Mondiale, un grande orgoglio per la Germania ariana. Acclamato ovunque, sia in Europa che nel Mondo, proprio lui decise di rischiare la sua vita per dare rifugio a degli ebrei, che montavano i suoi cavalli, nascondendoli nella sua fattoria alle porte di Berlino. Nel cuore della Germania nazista.
“L’importante è fare del bene e non parlarne”, con queste parole Johannes liquidava qualsiasi tipo di domanda sul suo coraggio di sfidare e di vincere, insieme ai suoi cavalli, il Terzo Reich.
I cavalli di Johannes furono protezione, salvezza, rifugio e, speranza. La speranza oltre la morte ed i crimini ingiustificati, la speranza oltre la Soluzione Finale nazista, la speranza che la loro storia non sia dimenticata.
Così come non deve essere dimenticata la storia di Maya o, meglio, la cavalla grigia che tutti noi conosciamo come “Principessa” del film La Vita è Bella di Roberto Benigni.
La domanda sorge, a questo punto, spontanea: cosa c’entra la storia di questo cavallo con il Giorno della Memoria? A differenza dei quattro cavalli visti da Primo Levi attraverso il filo elettrico di Auschwitz, qui è la vita di “Principessa” a dipendere ed intrecciarsi con la storia dei singoli uomini, anzi personaggi.
Non è certo, il caso non ha mai avuto un continuo, che la sua morte sia stata una conseguenza del suo ruolo svolto nel film La Vita è Bella, ma è certo che fu lei la cavalla dipinta di verde dai filonazisti con su scritto: “Achtung Cavallo Ebreo”. Ed è certo che “Principessa” è stata successivamente giustiziata con un colpo sparato in fronte, mentre era al sicuro nel suo paddock. Senza un vero motivo se non quello di essere stata la rappresentante dell’odio antisemita di un’Italia del 1939, improvvisamente immersa nell’apatia morale delle leggi razziali.
Di questa storia, una parola ci deve rimanere ben impressa: Achtung! Attenzione! Noi siamo la generazione con la memoria più breve che sia mai esistita nella storia del genere umano.
Purtroppo, questo concetto viene urlato sempre più sottovoce: si sta lentamente smarrendo nella nebbia dell’indifferenza, si sta perdendo nell’oscurità del rischio dell’emulazione delle nuove generazioni verso le fiction più violente e malavitose, muore nel buio più totale dell’indifferenza di chi si accontenta di un selfie da pubblicare sui social.
L’indifferenza, ecco la nuova forma di violenza, forse la più pericolosa, che ci porta a dimenticare come i cavalli di Johannes abbiano salvato delle vite, non perché qualcuno gli abbia chiesto di collaborare, ma semplicemente perché quelli che noi chiamiamo animali, non conoscono, e non potranno mai comprendere, il motivo per cui un popolo debba sterminarne un altro.