Bologna, 19 luglio 2023 – Federico Romiti, emiliano dell’Appennino, medico chirurgo, allevatore, cavaliere, grande amico del mondo equestre… Ora è in pensione e ogni tanto, tra una doma, un puledra e una fiera di cavalli, scrive chicche di cultura equestre. Come questa che parla di un cavallo ‘imperiale’ e tuttavia poco conosciuto: quello di Cesare…
A volte, il destino, il caso, senza scomodare il fato, come un folletto si diverte a farti inciampare in piccoli episodi, casi, personaggi di secondaria importanza o di altri tempi, ma che mantengono ancora una loro valenza attuale.
Il personaggio in cui sono inciampato oggi si chiama “Asturco” ed era il cavallo di Cesare.
Mi è capitato di rileggere dopo anni Svetonio, “Le vite di dodici Cesari”, ovviamente cominciando dal primo e mai più superato.
Il nostro Svetonio Tranquillo illustra con dovizia le doti del primo Cesare, che lo hanno fatto passare all’immortalità nei secoli. Fermezza di carattere, coraggio, resistenza alla fatica.
Era infatti infaticabile, un grande marciatore da endurance, nelle marce davanti ai suoi legionari, che lo adoravano come uno di loro, ma trasformato in dio.
Sapeva spostarsi con una celerità inaudita, anche 100 miglia al giorno, che tradotte nella lingua odierna sono 150 km, su un carretto, a piedi o a cavallo.
Ma precipue erano le qualità politiche (riformò il calendario che si usò per 16 secoli e una Res Publica che durò fino al 1453) e soprattutto militari. Fu stratega di genio e rinnovò l’arte militare che seppe escogitare e creare ex novo, come ad Alesia, il cui famoso doppio assedio, un uno-due fulminante, è ancor oggi studiato nelle Accademie Militari, e dovrebbero tenerne conto al Pentagono.
Passa poi alle eccezionali qualità letterarie che lui riservava ai momenti meno impegnativi, come durante il viaggio verso le Gallie, scrivendo con estrema facilità e fluidità, in prosa e in versi, un passatempo per intellettuali. Il suo stile è tanto fluido che sembra pensiero fuso sulla pagina.
Fra le doti minori si trovavano quelle atletiche. Era un nuotatore eccezionale e lo dimostrò all’assedio di Alessandria quando si buttò in mare con la clamide e -si può pensare- forse anche con l’armatura, per salvarsi da una schiera di nemici.
Era non meno esperto cavaliere, con un’abilità da cosacco tanto che si divertiva a galoppare con le mani dietro la schiena e vale la pena di trascrivere il capitolo 61 delle Vite.
“Montava un cavallo eccezionale, con piedi quasi umani con unghie fesse quasi a dita, che gli era nato in casa e che egli aveva allevato con gran cura dopo che gli aruspici ebbero pronosticato ch’egli annunciava al suo padrone l’impero del mondo. Era insofferente di altri cavalcatori, ed egli lo montò per primo. Gli dedicò poi una scultura davanti al tempio di Venere Genitrice”.
Lasciamo perdere queste anomalie anatomiche che impressionarono in senso quasi magico vari autori amanti del sensazionale, che le riportano scrupolosamente nei secoli. Non erano di certo esperti di ippologia dato che uno zoccolo simile impedisce una buona andatura e Asturco avrebbe dovuto incespicare ad ogni falcata, ben tenendo conto che i Romani non conoscevano né la ferratura né la staffa, che furono introdotte ben dopo Attila.
Invece fu infaticabile compagno di Cesare per tutta la campagna gallica e quella civile, da Roma alla Britannia, dalla Spagna a Farsalo.
È un vero peccato, proprio da lacrimare, che il tempo, le attività ossidionali, le necessità belliche abbiano fatto scempio della quasi totalità delle statue di Roma, predate o trasformate in calce, tanto più se di bronzo, l’unica reliquia equestre che si è salvata è quella di Marco Aurelio al Campidoglio, fortunosamente scambiata per quella del santificato Costantino.
Cesare, arrivato al massimo del potere, non dimenticò il suo fidatissimo Asturco e gli dedicò una statua (non credo bronzea) nel Foro davanti al tempio di Venere Genitrice che aveva fatto costruire, chiaro messaggio pubblicitario della Gens Julia che da lei pretendevano discendere.
Questa statua mi ha fatto sorgere la domanda di come fosse il cavallo di Cesare e quale affinità razziale avesse con quello di Marco Aurelio. Asturco è comunque uno dei pochi cavalli di cui si è salvato il nome se non la statua, assieme a Bucefalo di Alessandro e ad Incitatus del povero demente Caligola, che voleva assolutamente dormire nello stabulum del suo amato cavallo la notte prima delle gare.
Copenhagen di Wellington, un Purosangue Inglese discendente di Eclipse e Marengo di Napoleone, Arabo di certo, Straight Egyptian ma con muso di profilo nettamente rettilineo, chiaramente non camuso, a sfatare la leggenda creduta da quei dissennati allevatori europei che in tempi più recenti hanno degenerato l’arabo da cavallo da guerra a cavallo da show.
Marengo fu portato da Napoleone in Francia al suo ritorno nel 1799 e lo seguì in tutte le battaglie a cominciare da Marengo nel 1800, poi Austerlitz, Jena, e così via fino a Mosca, da cui fece il disastroso ritorno, nel 1812, per finire catturato dagli Inglesi a Waterloo nel 1815, seguendo la scia calante della stella del suo amato padrone. Era un veterano, era stato ferito 9 volte, aveva già 21 anni.
Morì preda bellica a 36 anni, in Inghilterra nel 1829.
Di Asturco si è salvato il nome, dicevo, ma non la statua rifusa o cotta in fornace, e il nome viene riportato da vari autori, anche Plutarco, che di certo non mancarono di notare nei secoli il suo nome passando nel Foro, fra cui un certo Cornificio, così riporta il mio vecchio Georges.
E parafrasando vien da chiedersi “Cornificio, chi era costui?” Cornificius rhetor, ipse qui cornua faciebat? Cornificio si è salvato dall’oblio completo solo grazie ad Asturco. Mi sono infatti chiesto cosa significasse un tale nome, lo pensai tratto da un aggettivo, magari di origine greca, ma alla voce “Asturco, -onis” il vecchio dizionario mi rivela che significa semplicemente “asturiano”, “delle Asturie”, in particolare “cavallo d’Asturia, chinea, famoso per la movenza delle gambe”.
Ovviamente non si può pretendere conoscenza di ippologia da un vecchio grammatico come Georges, si tratta ovviamente di ambio, come quello rappresentato nella statua di Marco Aurelio, che sta per mettersi all’ambio mentre probabilmente l’imperatore parte per una rassegna e col gesto saluta benevolmente i suoi legionari.
Per chinea, è vocabolo ora desueto e significava cavalcatura, cavallo o mulo da sella di nobile aspetto. Era famosa la chinea grigia dei Papi, tributo feudale dei Re di Napoli. “Asturco” è poi un nome semplice, sobrio, senza fronzoli retorici o di fantasia, come si addice allo stile e al carattere cesariano.
Come se lo avesse chiamato ”Maremmano” perché era nato a Tarquinia.
La razza asturiana viene riportata per fama e bellezza anche da Plinio che in particolare ne loda le andature e la resistenza. Sembra, così è riportato da presunti esperti, che anche il cavallo di Marco Aurelio fosse di razza ispanica o iberica. Si deve considerare che per Asturie i Romani indicavano una regione molto più ampia delle attuali Asturie, comprendendo Leon e Valladolid, sino al Duero.
Riferisce Svetonio che Asturco fosse nato nei poderi della Gens Julia, e dovevano averne molti, e che Cesare stesso lo avesse allevato e domato con cura, si tratta pertanto di un prodotto in purezza derivato da riproduttori importati dalle guerre iberiche un secolo prima. Difficilmente si tratta di un meticcio con cavalle autoctone, dato che si perderebbero le qualità precipue di andatura, modello e docilità.
La cosa sorprendente, da rimanere a bocca aperta, è che nelle Asturie si alleva ancora il cavallo “Asturcon”.
Le Asturie sono montagnose, con terreni alpestri e rocciosi e furono l’ultimo ridotto in cui si attestarono le genti cristiane travolte dalla invasione mussulmana e da lì ripartì la “Reconquista”.
Le Asturie avevano selezionato uomini rudi e forti, incuranti del freddo e delle fatiche, come i loro cavalli, che ad osservarli ora non mantengono più raffinate qualità di bell’aspetto e signorilità, ma, incredibile al giorno d’oggi, ancora ambiano. Ambiano ancora in un mondo completamente cambiato, con strade asfaltate e lisce come biliardi.
L’ambio e le andature steppanti degli ispanici servivano in tempi di strade sassose e molto irregolari. Erano famose quelle dei “bidets d’allure” (il bidet che conosciamo noi difatti, a guardarlo bene da sopra è a forma di cavallo, anzi di pony, senza incollatura beninteso, da cui il nome) e degli ambiatori irlandesi che, riportano gli esperti, erano velocissimi, tanto da essere fra gli antenati degli attuali purosangue, i famosi hobbies, e poi mi vengono a raccontare che i purosangue inglesi discendono dagli arabi.
Gli “asturcones” del tempo di Cesare erano famosi per bellezza ed eleganza delle andature, di grande pregio ed erano chiaramente uno “status symbol” come le Ferrari e le Maserati del giorno d’oggi e la loro eleganza di movenze è stata tramandata nel passo spagnolo degli attuali iberici.
Il cavallo “asturcon” si è trasformato in un montanaro grezzo e irsuto che però resiste sotto la neve nei boschi, ha perso di eleganza e altezza, dato che raramente supera il metro e 55. In particolare si è salvato un pony, il pony “asturcon” è morello a differenza dei suoi compaesani bai e misura 1 metro e 25 al garrese, un bel cavallino in miniatura, di un bel pelo da visone, e docilissimo, molto adatto per introdurre i bambini all’equitazione. E soprattutto ambia.
L’altezza limitata degli Asturcones viene messa dai tecnici in rapporto a tutti i cavalli del mondo celtico. I Romani non erano cavalieri di loro natura e di solito usavano truppe ausiliarie di popoli alleati. Cesare usò la cavalleria Sequana. Di certo Asturco aveva un’altezza al garrese che fosse comoda per il cavaliere, cioè non più di 1,50 – 1,60 dato che non c’era la staffa, raramente i cavalli di allora la superavano, forse cavalli da traino provenienti dal Nord o dalla Scizia.
I cavalli celtici, come tutti gli animali domestici comprese galline e vacche (le Jersy), erano famosi per la loro piccola statura, in molte raffigurazioni i piedi dei cavalieri toccano quasi terra come nel famoso vaso di Gundestrup. Sembra che gli Asturcones siano parenti genetici dei Pottok e dei ponies cimbrici, e dei Dartmoors. Sembrerà strano ma le Asturie furono popolate dai Celt-iberi che ne hanno lasciato una eredità nella lingua gagliega (Galicia era popolata prevalentemente da Galli). Lo strumento nazionale è la cornamusa, sarà un caso, ma anche quella è un’eredità celtica
testo di Federico Romiti