Bologna, 12 settembre 2024 – La leggenda vuole che all’inizio della sua straordinaria carriera, quando in Francia montava il tendone in qualche paesello della provincia, per attirare il pubblico al suo spettacolo equestre montasse a cavallo indossando un pesante mantello coperto di topi e che galoppasse per le strade lanciandoli ai piedi dei passanti.
Si trattava indubbiamente di una presentazione-shock, che oggi verrebbe vietata ma che allora -siamo agli inizi degli Anni Ottanta- attirava la curiosità controversa della gente del paese, che faceva la coda al botteghino.
Lo spettacolo aveva il cavallo come attore protagonista di “numeri” insoliti e straordinari, dove la rappresentazione aveva il sapore del rituale e la sofisticata tecnica equestre, anche d’Alta Scuola, veniva surclassata dalla suggestione del tema e dall’espressività degli attori, quadrupedi e bipedi.
Non solo cavalli e cavalieri però: in scena si esibivano anche altri animali -buoi, oche, tacchini, asinelli- tutti sorprendentemente ammaestrati e protagonisti, come attori essi stessi, di “quadri” pittoreschi, a volte poetici, a volte fiammeggianti e dirompenti. Presto quel teatro equestre fu sulle prime pagine dei giornali, in Francia e non solo, oggi Zingaro è una compagnia che riscuote enorme successo in patria e in tournée in tutto il mondo.
Zingaro
Chi scrive vide Bartabas per la prima volta nel 1985 durante una sua tournée a Milano, ahimé rimasta poi l’unica nel capoluogo lombardo: ad annunciarmi la cosa fu il compianto amico Albert Moyersoen (vedere il servizio dedicato al suo museo della Cavalleria su questo stesso numero di Cavallo Magazine) perché Bartabas alloggiava a casa sua, alla tenuta La Longora, presso Melegnano e ne aprofittava per farsi dare qualche “rifinitura” tecnica da quel grandissimo uomo di cavalli. Ma la voce che il più grande uomo di teatro equestre fosse arrivato in città, con il suo spettacolo “Zingaro” (con l’accento sulla “o” finale, alla francese) aveva già fatto il giro di tutti i maneggi della regione e la sera della prima era tutto un salutare amici e conoscenti. Non solo cavalieri e amazzoni, ma anche amanti del teatro-tout court, perché di vero teatro si trattava, come tutti toccammo con mano di lì a poco.
Bartabas per il suo spettacolo aveva scelto appositamente come sede una cascina diroccata, dipinta di rosa, alla periferia della metropoli, nella campagna lungo il Naviglio Pavese. Un luogo suggestivo che faceva tornare alla mente la vita rurale di un tempo. Nell’aia, dunque all’aperto, era installata una pista circolare, come quella di un circo, con i posti a sedere tutto intorno. Quelli in prima fila dotati di tavolini apparecchiati con tovaglie a quadretti, come nelle osterie di campagna, e con bicchierini di cristallo e piattini colmi di biscotti savoiardi, dei quali non si capiva fino in fondo l’utilizzo.
L’atmosfera di quel posto spoglio e isolato era carica di attesa e di mistero mentre il tramonto lasciava spazio al buio della sera. Tutto rimase nell’oscurità qualche minuto, senza luci, fino a quando il silenzio fu squarciato da urla di terrore che fecero sobbalzare gli spettatori: i riflettori si accesero di colpo mostrando un uomo terrorizzato, inseguito da un enorme Frisone intero, nero come la pece, che a fauci spalancate inseguiva il malcapitato. E questi, per sfuggire alla carica di quel vero diavolo con la criniera, si tuffava tra gli spettatori delle prime file travolgendo sedie e tavolini, signore ingioiellate e piattini di savoiardi. Ma mai il cavallo, pur continuando a braccare la sua preda umana (ma il cavallo sa essere anche predatore?) non metteva mai uno zoccolo oltre il cerchio della pista né mordeva chicchessia. Insomma due minuti di scompiglio e baraonda infernali, quello sì, ma che fecero intuire quanto addestramento e maestria ci fosse dietro tutta l’interpretazione del fuggitivo -ovviamente era Bartabas in persona- e del cavallo, Zingaro ovviamente. Poi entrambi fuggirono per dove erano venuti e calò di nuovo il buio: nel silenzio generale si sentiva, non esagero, il respiro corto delle persone grate a Dio di essere scampate incolumi a quel primo impatto sconvolgente e tragicomico con “Zingaro”. Ma anche consci di aver assistito a qualcosa di diverso, insolito, straordinario e geniale. La serata era iniziata ed era densa di promesse .
L’intenso rapporto uomo-cavallo
Per due ore luci e buio si alternarono sulla pista, e ogni volta i riflettori mostravano qualche aspetto dell’impiego del cavallo da parte dell’uomo nel corso dei millenni: buoi dalle lunghe corna attaccati a monumentali carri agricoli senza conducente e guidati da qualcuno nell’ombra, poi due e più cavalieri in sella impegnati a duello, indi un ecuyer su uno stallone grigio intento nella spettacolare tecnica dell’Alta Scuola, un altro in quella della doma vaquera andalusa. E ancora: numeri clowneschi come quello dei due ubriaconi a cassetta di un vecchio carrozzone letteralmente ricoperto di bicchieri e bottiglie, che si fermano a distribuire vin-brulé e a brindare con gli spettatori, finalmente edotti del perché dei savoiardi sui tavolini. Inutile dire delle splendide toelettature “nature” dei cavalli, dell’originalità dei costumi dei cavalieri, della varietà e dei finimenti.
Alla fine dello spettacolo il clou: Bartabas su uno stallone morello iberico, entrée al galoppo riunito, poi transizione al piaffé -tanto ritmico e musicale da risuonare sulla pedana come un tamburo- che infine si trasforma in galoppo riunito all’indietro, con uscita verso le quinte senza volgere le spalle al pubblico. Solo pochi ecuyers e pochissimi cavalli al mondo sanno farlo e lì, sotto il cielo estivo di Milano, fu vera magìa, un autentico “coup-de theatre” da far balzare in piedi per l’entusiasmo i “loggionisti”. Anche ai meno esperti di cose equestri fu chiaro che quella rappresentazione teatrale aveva mostrato molteplici aspetti del rapporto tra cavallo e uomo nel corso dei millenni e le maniere per comunicare con questo affascinante animale.
Un rapporto, quello tra umani ed equini, celebrato già nel mito del Centauro, che nell’era di Internet, di globalizzazione e transizione ecologica, è difficile da comprendere da parte di chi non è contagiato dalla stupenda malattia che si chiama “passione equestre”. Scrisse su un noto quotidiano il critico Nico Garrone: «La bravura, il coraggio, l’indovinata clownerie, la perfezione dell’esecuzione non sono il metro unico per giudicare questo spettacolo e capire il piacere che ogni volta riesce a creare negli spettatori. Come più volte ha detto Bartabas stesso, “Zingaro” non mette in passerella dei semplici “numeri” d’arte equestre, ma teatralizza un dialogo quasi metafisico fra l’uomo e il cavallo».
Cavalli Attori
Intorno ai cavalli di Bartabas, ai quadrupedi protagonisti delle sue creazioni teatrali, che grazie ad essi diventano “teatro equestre”, si sono tenuti convegni e dibattiti, prendendo spunto anche dal testo “D’un cheval à l’autre” (Ed. Gallimard) che non è l’unica opera scritta dal’ècuyer e artista francese.
Uno di questi cavalli fu salvato dall’abbattimento, un altro dismesso da un torero in disgrazia, un altro ancora comprato per un pugno di pesetas da un becero commerciante: Bartabas li accolse tutti nel suo clan, per farsi loro discepolo prima che loro maestro.
Ad alcuni di questi animali ha offerto un ruolo speciale nei suoi spettacoli, alcuni senza mai montarli. E proprio con molti di questi cavalli ha raggiunto risultati da non credere, livelli di reciproca intesa che nessun ecuyer era riuscito ad ottenere prima di lui. I loro nomi: Zingaro, il primo e indimenticabile, che diede il nome alla compagnia e al primo spettacolo. Pio Quixote (in italiano Chisciotte, come Don Chisciotte), Dolaci (Pasticcino), Felix. E ancora: Horizonte, Caravaggio e molti altri. Pensando a questi nomi, sicuramente attribuiti non a caso, pare di vederli davanti a noi, questi cavalli. Nomi ispirati a volte dal loro atteggiamento, a volte dal loro carattere, altre volte dal loro aspetto estetico. Sicuramente nomi calzanti e ben indovinati dalla fervida fantasia e intuito quasi magico di Bartabas.
Molti di questi cavalli sono iberici- ossia Andalusi, Lusitani, e quant’altro- non solo per la loro bellezza barocca e per l’enfasi dei movimenti capaci di rubare l’occhio del pubblico e conquistarne il cuore, ma soprattutto per un motivo funzionale: perché è insito in questa razza più che millenaria un equilibrio psicofisico, una capacità di coordinazione e anche di coraggio e intelligenza, che altre razze da sella di più recente selezione (centocinquant’anni al massimo) non possono ancora avere. Nel cavallo iberico sono “fissate” stabilmente caratteristiche fisiche e “di testa” che lo rendono unico nel suo genere. Bartabas utilizza nei suoi spettacoli anche cavalli di altre razze, ma per i numeri individuali con il cavaliere in sella gli iberici sono privilegiati.
Naturalismo a cavallo
Per meglio comprendere il teatro equestre ci sia concessa una breve divagazione: John Astley, l’inventore del circo modernamente inteso, era un soldato reduce dalla Guerra dei sette anni, e quando ritornò a Londra costruì, nel 1776, un’arena, la Astley’s Amphitheatre, per eseguire spettacoli con la sua troupe equestre. Essere stato un soldato, aver condiviso col suo cavallo la vita e la morte sul campo di battaglia aveva reso strettissimo il loro legame.
A quel tempo gli spazi dedicati al tempo libero, a Londra, erano molto frequentati da un pubblico che desiderava vedere esibirsi gli ex soldati di cavalleria in spettacoli che esaltavano l’élite combattente dell’impero britannico. Insieme all’ippomania, che prese piede a Londra già a partire dalla fine del Settecento, si diffuse il cosiddetto “hippodrama” nel quale i cavalli non erano solo esibiti ma diventavano i protagonisti della trama, come fossero attori essi stessi.
In altre parole lo spettacolo si era evoluto rispetto al circo equestre, nel quale i quadrupedi erano impiegati in uno spettacolo senza trama. La stampa contemporanea descriveva gli hippodrama come “thrilling plays of blood, thunder and love”, le presenze di rilievo erano i quadrupedi, i cavalli, che interpretavano spesso scene di battaglia realmente avvenute. Le rivoluzioni e le guerre fornivano le sceneggiature e Astley, come ex soldato, si trovava nella posizione di rappresentarle con successo. I suoi cavalli costruivano perfetti personaggi a quattro zampe e i drammi erano scritti appositamente per includerli nel copione come elementi necessari allo sviluppo dell’azione drammatica.
E qui torniamo a Bartabas: le performance inter-specie del Teatro equestre Zingaro sono celebri e, intorno a questo percorso si può parlare di inter-soggettività. Secondo Bartabas, infatti, l’interazione tra umani e cavalli rappresenta addirittura la possibilità dell’incontro di due diverse nature, una sensoriale, l’altra fisica. Così dalle performance scaturisce un altro essere, derivato dall’unione di entrambi: il centauro. Ha detto in effetti Bartabas: «Il centauro per me non è un mostro ma un sogno, quello dell’incontro tra l’istinto e l’intelletto. Solo l’uomo, che è parte del Centauro, ha potuto insegnargli a tendere un arco. Ma è il suo corpo equino che gli permette di essere veramente conquistatore. L’alleanza dell’uomo e del cavallo non è forse stata all’origine di tutte le conquiste?».
Lo spettacolo più recente
Dal 2021, Bartabas ha deciso di tornare alle origini, ossia alla formula del cabaret equestre con la quale divenne celebre agli esordi, ormai quasi quarant’anni fa. Già allora, al di là delle apparenze, tra cavalli, galline e figuranti si trattava di uno spettacolo sofisticatissimo perché coniugava una rappresentazione futurista con la poesia del circo, infarcite di citazioni colte e trovate esilaranti.
Quello attuale è invece uno spettacolo meno clownesco, anzi melanconico, dal titolo “Cabaret de l’exilé” dedicato a diverse culture ed etnie in esilio, come dice il titolo. Ha debuttato lo scorso autunno con la cultura yiddish e la musica klezmer e le repliche proseguiranno sino agli inizi del prossimo aprile. Successivamente i protagonisti saranno gli Irish travellers, nomadi irlandesi la cui identità è strettamente legata alla vita con i cavalli (celebri i loro Gipsy Vanner, dai lunghi ciuffi di pelo agli arti, frutto di una selezione centenaria tramandata però solo oralmente, che dal 1996 ha un libro genealogico tenuto dalla Irish Cob Society). Un popolo emarginato della società e oggetto di persecuzioni a causa della diversità. C’è un chiaro trait-d’union tra l’isolamento, l’emarginazione di quei gitani e la solitudine del cavaliere-artista di Zingaro (anche il nome è un fil-rouge che li accomuna), il quale vive lo stretto rapporto con i suoi cavalli come un’esperienza totalizzante, esclusiva, e che lo emarginerebbe se egli non avesse bisogno del pubblico per mantenere viva la propria arte.
Nei suoi primi spettacoli Bartabas aveva portato sulla scena come attori protagonisti non solo cavalli ma anche oche e tacchini. Questi animali sono tornati nello spettacolo attuale, insieme a un sorprendente gregge di pecore ammaestrate che, nella pista insieme a Bartabas in sella al gigantesco stallone Zar, (ormai Zingaro, il Frisone morello ahimé ci ha lasciato) sanno suscitare l’ilarità del pubblico dando vita a una divertente metafora. Ancora una volta, insomma, Bartabas si conferma cavaliere straordinario e artista geniale.
Ha scritto in proposito il critico Giovanni Battista Tomassini: «La cosa che più sorprende di questo spettacolo, come delle altre creazioni di Bartabas, è la sua capacità di armonizzare la complessa varietà dei livelli di interpretazione, dei riferimenti culturali e delle citazioni, in un linguaggio per tutti, per gli esperti di cavalli e al contempo per chi li vede per la prima volta. Chi ama questi animali non può che essere grato a Bartabas di tener viva la gioiosa utopia del suo teatro, della sua compagnia-tribù, di questo posto alla periferia di Parigi (l’attuale sede “fissa” dei suoi spettacoli, ndr) in cui si respira un’aria diversa da quella del nostro tempo. Un posto che ci racconta di chi resiste all’omologazione e si ostina a cercare un orizzonte più aperto e più libero».
N.B. Questo articolo è stato pubblicato all’interno della rivista 416 di Cavallo Magazine.