Bologna, 10 gennaio 2020 – Vittorio Sgarbi è persona troppo affascinante e quando parla di ciò che ama, l’Arte, è impossibile non ascoltarlo: ha il dono di farti vedere quello che fino a tre secondi prima guardavi soltanto, trova sempre la chiave per farti entrare in una opera come se fosse un mondo da camminarci dentro, appropriandotene per sempre.
Funziona così quando discetta su Antonio da Crevalcore e la pittura ferrarese del ‘400 a Bologna, figuratevi se parla di cavalli: e dopo il suo libro dedicato al celebre quadro di Caravaggio raffigurante la conversione sulla via di Damasco di Paolo di Tarso non ci siamo fatti scappare l’occasione di parlare con lui.
Perché la conversione di Paolo, fiero persecutore di cristiani fino a quel momento e poi diventato nientemeno che San Paolo, avvenne mentre lui era in sella.
E il Caravaggio infatti dipinge la scena dando al cavallo una parte dominante…ma è inutile dilungarci, lasciamo la parola al professor Sgarbi che sentiamo al telefono verso l’una di notte, dopo che ha passato una giornata di presentazioni e conferenze sulla perduta tomba di Anna d’Alençon a Casale Monferrato, in provincia di Alessandria.
Ci sarebbe da aspettarsi un po’ di stanchezza da parte sua ma Sgarbi è assolutamente sereno: ha davanti cinque ore di macchina, niente di meglio che usarle per sbrigare un po’ di impegni. Attacchiamo con le nostre domandine, tesi come se fossimo noi a dover rispondere in una di quelle giornate che sai benissimo di non aver fatto bene i compiti a casa – e speriamo di non beccarci della capra.
Professore, chi era Caravaggio?
Era un uomo spregiudicato, cioè privo di pregiudizi e anche il suo occhio era libero, esattamente come lui. Ha colto il Santo in un momento in cui non era ancora santo e ferma l’immagine come in una istantanea, con il cavallo che domina fisicamente Paolo e potrebbe schiacciarlo ma solleva la gamba perché non vuole ferirlo. Così facendo il cavallo diventa protagonista e agisce in prima persona. Caravaggio ci porta in uno spazio non curiale, e il modo in cui lo definisce fa emergere la distinzione e l’eleganza del cavallo: ma in realtà niente è al suo posto, il pittore ha alterato completamente il punto di vista comune mettendo al centro della scena un cavallo che si è ribellato al suo cavaliere e minaccia di schiacciarlo.
Nel suo libro spiega che dopo la morte Caravaggio venne quasi dimenticato fino al 1951, quando Roberto Longhi allestisce al Palazzo Reale di Milano la “Mostra di Caravaggio e dei Caraveggeschi”. Quindi possiamo considerarci fortunati ad avere ancora sotto i nostri occhi questi capolavori, che avrebbero potuto andare perduti per il disinteresse della gente?
Il rapporto tra le opere d’arte e il popolo può essere qualcosa di molto poco rassicurante, leggendo gli eventi della storia. Solo nel ‘900 è cominciato qualcosa di diverso, fino a quel momento gran parte delle persone non pensava nemmeno di entrare in una chiesa per vedere la caduta di Saulo: ma è molto difficile stabilire se quello che vediamo noi oggi fosse percepito allo stesso modo nel ‘600 o nel ‘700.
Ultima domanda: quale pensa che sia il cavallo che potremmo considerare fondamentale nella storia dell’arte?
Io non penso mai ai cavalli.
Alé, buonanotte: ci siamo giocati la sufficienza col professore? Probabile, e sarebbe colpa di tutti i benedetti compiti che non abbiamo fatto a casa quando era il momento.
Oppure può darsi che Vittorio Sgarbi, come sempre, dica semplicemente quello che sente davvero e che non pensi ai cavalli perché quelli dipinti (o scolpiti, o disegnati) non sono davvero cavalli ma opere d’arte.
Ceci n’est pas une pipe, dipingeva Magritte: mentre Michelangelo Merisi da Caravaggio, più di 300 anni prima di lui, cercava testardamente di fotografare la realtà che lo circondava come lui la vedeva coi suoi occhi liberi, e privi di pregiudizi.
La cronaca del fatto
Saulo frattanto, sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore, si presentò al sommo sacerdote e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne, seguaci della dottrina di Cristo, che avesse trovati. E avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”. Rispose: “Chi sei, o Signore?”. E la voce: “Io sono Gesù, che tu perseguiti! Orsù, alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare”. Gli uomini che facevano il cammino con lui si erano fermati ammutoliti, sentendo la voce ma non vedendo nessuno. Saulo si alzò da terra ma, aperti gli occhi, non vedeva nulla. Così, guidandolo per mano, lo condussero a Damasco, dove rimase tre giorni senza vedere e senza prendere né cibo né bevanda, Atti degli Apostoli 9,1-9.
Chi è Vittorio Sgarbi
Nato a Ferrara nel 1958, laureato in filosofia con specializzazione in storia dell’arte all’Università di Bologna. Docente universitario, critico e storico d’arte, politico e polemista. Abbiamo chiesto ad una persona che si occupa di arte per professione quale sia il tratto più forte della personalità di Vittorio Sgarbi: «In assoluto è una persona estremamente intelligente, capace di captare nel campo dell’arte ogni più piccola sfumatura. La sua grande sensibilità derivante da una profonda conoscenza della materia lo rende capace di intuire le cose, vederle in modo diverso dagli altri. Ha una memoria fenomenale, che lo mette in condizione di collegare elementi apparentemente lontanissimi tra loro e apprendere al volo: lui guarda un quadro e lo vede fino in fondo memorizzando i punti principali, non ne conosco altri così. L’altra sua capacità più caratteristica è sicuramente quella di riuscire a comunicare esattamente il suo punto di vista, a farti entrare nell’opera e spiegare le cose. Perché lui ne ha sempre una visione pulita, chiarissima e per questo la riesce a trasmettere in modo semplice e comprensibile a tutti».
Chi è il Caravaggio
Michelangelo Merisi nacque a Milano attorno al 1571 da genitori originari di un paesino della bergamasca, Caravaggio per l’appunto. Sicuramente uno dei più celebri pittori italiani di ogni tempo, usava la luce in modo drammaticamente scenografico per dare pathos ai suoi quadri dove riproduceva in modo quasi iperrealista popolani, donne di strada e ragazzetti dalla faccia furba mettendoli nei panni di santi, madonne e divinità quasi sempre gaudenti. Di carattere tempestoso, finì in disgrazia per aver ucciso il ternano Ranuccio Tomassoni in una rissa a Campo Marzio, in Roma: condannato a morte dal Papa cominciò ad errare per tutto il Mediterraneo seguendo le commissioni che man mano gli venivano confermate. Morì febbricitante sulla spiaggia di Porto Ercole nel 1610, quando pensava ormai di poter comprare la grazia da papa Paolo V con alcuni suoi quadri. Pochi anni di vita in fondo, intensi e spericolati come un film di Steve McQueen: ma è riuscito ugualmente a dipingere capolavori che lo hanno reso immortale, facendoci guardare ancora oggi il mondo con i suoi occhi.
Chi è il cavallo di San Paolo
Un pezzato sauro dalla pelle sottile e le vene in rilievo, con i crini lunghi e fini dei cavalli ben tenuti. Poteva essere un portante (cioè un ambiatore) di origine spagnola, uno di quei cavalli tranquilli e affidabili che nei quadri dell’epoca di Velasquez montano solo le donne o i viaggiatori o erano riservati agli attacchi. Si trattava infatti di cavalli meno raffinati dei soggetti da parata montati dai notabili di solito appartenenti a razze più pregiate come l’Andaluso, che non ammettevano nemmeno allora il mantello pezzato. Questo per quanto riguarda l’ippologia: dal punto di vista dell’arte, invece, il pedigree del nostro protagonista risale al suo collega equino dipinto da Moretto da Brescia nella Caduta e Conversione di San Paolo. Il Caravaggio lo vide infatti da ragazzino, quando aveva circa sedici anni e confrontando le due opere si vede quanto l’impressione del cavallo dominante si sia fissata nella memoria del giovanissimo artista: che lo rievocò nel 1600, solamente osservandolo da un altro punto di vista.