Pesaro-Urbino, 16 agosto 2024 – Li vedi sugli alti pascoli dell’Appennino marchigiano e ti sembra che siano sempre stati lì, e per qualche incantesimo nessuno li abbia mai toccati o sia arrivato quassù a disturbare la loro vita brada.
Invece i cavalli del Catria non sarebbero ancora qui se l’uomo, nel bene e nel male, non ci avesse messo lo zampino.
E’ dall’anno 1000 che ci sono notizie di cavalli allevati nella zona tra il massiccio dal quale prendono il nome e il Monte Acuto.
Al Monastero di Fonte Avellana, fondato negli anni vicini al 980, venivano allevati i cavalli richiesti dalle varie famiglie notabili della zona per i loro abituali usi.
Catria dell’allevamento Romitelli, Foto di Hubert Asam
Tra cui anche quello, fondamentale per queste zone dove i boschi occupavano tanta parte delle pendici appenniniche, di fornire i muli da soma. Carbonai e taglialegna avevano in loro un mezzo di trasporto indispensabile e insostituibile, mentre i pascoli garantivano un ambiente ideale per avere giumente ben nutrite.
E di conseguenza puledri sani e forti.
In questo arco di tempo lunghissimo sono cambiate tante cose: i tempi, il paesaggio, gli uomini e di conseguenza anche i cavalli.
Dai soggetti ‘a due mani’, cioè per il tiro leggero e la sella a quelli adatti ai lavori agricoli e alla soma. Che storicamente erano apparentati con i cavalli Maremmani. Come? Grazie agli stalloni che venivano dati alle giumente scese verso il piano nelle transumanze stagionali.
Negli anni ’70 invece, come per molte altre razze, il modello morfologico è andato verso quello adatto alla produzione di carne.
Catria dell’allevamento Romitelli, Foto di Hubert Asam
E’ stata la maledizione e contemporaneamente anche la benedizione dei tipi equini più rustici, frugali.
Quelli capaci di trasformare un territorio marginale, povero e difficile in una risorsa economica per aziende agricole e gli allevatori locali.
Nel caso del Catria l’apporto di sangue Franches Montagnes che li ha appesantiti perchè dessero una maggior resa in carne.
Certamente un destino triste per i singoli soggetti sacrificati in questo modo.
Ma che ha permesso ai loro allevatori, e di conseguenza al nucleo minimo di base di questo tipo equino, di sopravvivere anche negli anni in cui altrimenti sarebbero scomparsi.
Ora quel periodo così nero per la zootecnia moderna è finito, anche se tante razze sono scomparse in tutto il mondo a causa della mancanza di una qualsiasi utilità per l’essere umano.
Ma non il cavallo delle montagne tra Umbria e Marche. Il Catria è ancora qui, tra noi, e gli allevatori lo stanno riportando al modello tradizionale, più leggero e funzionale di quello destinato alla produzione alimentare.
E che grazie alle nuove possibilità di lavoro date non solo dal trasporto della legna (ancora attuale, per altro) ma anche dal turismo equestre stanno di nuovo cambiando pagina.
La loro è una lunga storia, dove i legami genetici forse non arrivano direttamente alla radice storica delle popolazioni equine locali.
Ma dove la continuità della loro persistenza è garantita da due fattori fondamentali: in primis la capacità di vivere bradi sulle montagne, senza dipendere dall’uomo anche per lunghi periodi. E poi la quasi miracolosa attitudine che hanno tutti i cavalli a trovare il modo di essere utili, collaborativi con l’uomo.
Ci meritiamo veramente questa «…inclinazione amorevole e rispettosa al servizio dell’uomo, per cui non fallisce mai né in guerra né in pace, e quindi dobbiamo considerare il cavallo la più nobile e necessaria di tutte le creature»?
La risposta possiamo darla oggi, adesso, facendo il meglio possibile per i cavalli che vivono con noi: e ringraziando tutti quelli che ce li hanno conservati sinora.
Questo articolo è stato pubblicato sul numero di Cavallo Magazine di febbraio 2024