Modena, 9 giugno 2017 – Quando la tua malattia dei cavalli risale all’infanzia è normale (lo sapete anche voi) che parenti ed affini finiscano con l’immedesimarti con l’oggetto della tua passione, e pensare a te ogni volta che vedono qualcosa di anche vagamente equestre in giro per il mondo.
Specialmente se sono zii, come il mio Tato Gianni ad esempio, cui è capitata sott’occhio una bellissima stampa rappresentante un cavallo del duca di Newcastle che ha destato la sua curiosità: il minimo che posso fare è raccontargli la storia del meraviglioso William Cavendish, non vi pare?
La riprendo da Cavallo Magazine di agosto 2013, buona lettura.
Storia dell’equitazione: 1650-1700
Una perla di gentiluomo: il Duca di Newcastle
di Maria Cristina Magri
Il termine «barocco» deriva da una parola portoghese che definisce le perle più irregolari, non perfette come forma ma comunque preziose e che spesso divenivano il punto focale di gioielli con un forte carattere. Tutte qualità che possiamo serenamente affibbiare a William Cavendish (1592-1676), nobiluomo inglese del partito realista che si può considerare come «una delle personalità che maggiormente contribuirono a far conoscere il barocco in Inghilterra». Nipote della ricchissima e fortunata Bess di Hardwick, erede del titolo di conte di Newcastle che grazie al successo della sua carriera a corte si elevò sino al rango di ducato gli si può perdonare una presunzione così sinceramente sfrontata da risultare quasi simpatica: nasceva dall’abitudine di una vita a vedersi oggettivamente superiore agli altri in parecchi campi, e non soltanto a quelli che dipendevano dalla fortuna di una buona nascita. Il giovane William aveva frequentato Cambridge (senza esagerare nel profitto, a dire la verità) e una volta uscito da lì si dedicò allo studio dell’equitazione nelle scuderie Reali: il suo maestro fu il francese Monsieur de Saint Antoine, che lo iniziò alle raffinatezze del maneggio. Di pari passo esercitava altri suoi talenti naturali, davvero impagabili per un giovane nobiluomo deciso a brillare a corte: era un ottimo spadaccino, compositore, poeta e musicista, amava la letteratura e ne favoriva lo studio all’interno della sua vivace famiglia (assieme alla sua seconda moglie, Margaret Lucas, diede vita ad un circolo di intellettuali raffinati di cui era patrono e mentore).
Ma prima di ogni altra cosa era un cavaliere di grandissima qualità, benedetto da una caratteristica che ce lo fa sentire molto vicino, moderno in un certo senso: lui amava e rispettava profondamente i suoi cavalli come individui, unici e particolari. E’ la moglie nelle sue memorie a parlarci di questa sua caratteristica, e anche con un certo orgoglio per la sensibilità del marito: racconta con garbato rispetto di quanto il Suo Signore fosse semplicemente felice di andare a trovare i suoi beniamini nelle lussuose scuderie dei suoi possedimenti (Welbeck e il magnifico Bolsover Castle), ammirarne i movimenti aggraziati o anche soltanto ascoltare i rumori che facevano muovendosi, nella calma della sera. Un pretendente compratore lo rattristava profondamente, perché non amava separarsi dai suoi cavalli che collezionava con passione, dedicando ad ognuno di loro un groom perfettamente in tono con la storia del paese di provenienza (aveva cavalli Turchi, Napoletani e Berberi tra gli altri) e che divennero la stessa ragion d’essere della sua esistenza, una costante presenza che giustificò i suoi successi e rimase a dare un senso alla sua vita anche quando i rovesci di fortuna politica gli resero un po’ amara l’esistenza.
Perché non tutto fu facile, nemmeno per il magnifico William Cavendish: raggiunta una ottima posizione a corte nel 1638 (venne nominato governatore del Principe Carlo), divenne Comandante in Capo di Carlo I durante la Guerra Civile ma fu proprio in questa veste che conobbe la prima sconfitta della sua vita – e per mano della cavalleria avversaria, ironia della sorte: Cromwell ne aveva ammodernato l’armamento e la tattica, trasformandola di fatto in un’arma di sfondamento che caricava a ranghi compatti, infischiandosene altamente delle evoluzioni raffinate dei singoli cavalieri.
La battaglia fatale fu quella di Marston Moor, nel 1644, dove perse quasi tutti i suoi 4.000 uomini: il carattere cavallerescamente demodé di Cavendish lo rendeva molto più affine ad uno dei suoi diretti avversari (Lord Fairfax, che sfidava a singolar tenzone e con cui scambiava generose) che al più pratico Principe Rupert del Palatinato, inglese per parte di madre e che era suo collega nel partito fedele al Re. Dopo questa disfatta Carlo I venne giustiziato dal popolo inglese, stanco della prepotenza Stuart, Cromwell divenne Lord Protettore e il piccolo Carlo II si salvò cercando asilo in Francia presso il cugino Luigi XIV. E il nostro Cavendish? Riparò prima a Parigi col suo piccolo principe (e numeroso seguito) e poi ad Antwerp, in Olanda, dove il suo tocco speciale per l’Arte dell’Equitazione lo aiutò a rimanere attivo e riconosciuto, e a giustificare ancora l’alta considerazione che aveva di se stesso.
Perché il marchese di Newcastle non cambiò una virgola del suo atteggiamento testardamente blasé, di quella superiorità senza acredine così tipicamente british. Lo leggiamo chiaramente tra le righe del suo Méthode et invention nouvelle de dresser les chevaux , terminato nel 1658 e che assieme alla scuola di equitazione da lui fondata lo tenne occupato in quegli anni, lontani dalla patria e dai suoi onori.
Il tono di Cavendish è quello di chi si sente sicuro di aver capito qualcosa di nuovo, di avere un talento limpido ed oggettivamente riconosciuto nel lavorare i cavalli (riusciva ad addestrare un cavallo nelle arie di scuola nella metà del tempo necessario alla maggior parte degli altri cavalieri, il che richiede una tatto equestre indiscutibilmente raffinato rispetto alla media): non ama il lavoro coi pilieri, preferisce ottenere lo stesso risultato (fargli impegnare le anche sotto lo stimolo degli speroni, senza farlo avanzare) mettendo il cavallo di fronte al muro del maneggio, impedendogli così di avanzare senza di fatto irrigidirne l’incollatura. Era questo il suo pallino, il suo principale obiettivo: avere un cavallo con la testa ben piazzata, l’incollatura elastica e flessibile e tutto il resto sarebbe venuto di conseguenza. Aveva capito che un cavallo in volta doveva essere piegato elasticamente dal naso alla coda disegnando la pista su cui si arrotondava, e che voleva sicuro sull’anteriore, dritto e in avanti: un vero e proprio precursore di tanti successivi grandi maestri dell’equitazione, e di quel lavoro di scuola che diventerà caratteristico dei circhi equestri quasi un paio di secoli più tardi: l’evoluzione nazional-popolare delle raffinatezze accademiche nate per le corti dei Re, a ben vedere.
Nel 1660 Carlo II riprese il trono di suo padre, Cavendish tornò in Inghilterra e divenne Sua Grazia, il Duca di Newcastle: visse tranquillamente nella sua bellissima tenuta di Bolsover, di cui aveva studiato con certosina cura la costruzione delle scuderie e del maneggio. Le edizioni successive della sua opera, curate dagli eredi, ce lo tramandano in tutta la sua elegante, naturalissima attitudine di bel cavaliere: le stampe che raffigurano lui e i suoi cavalli ci mostrano ancora la sua posizione in sella («un uomo deve essere ben piazzato, ma senza formalizzarsi troppo…non ho mai visto nessuna impostazione di scuola dare risultati pari ad un atteggiamento semplice ed istintivo») e tutto l’orgoglio che si intuisce dal suo portamento a noi pare perfettamente giustificato, a ben vedere.
Non per il ducato, non per la vita lussuosa né per i successi mondani: ma per quella sua sensibilità intelligente, per quella attenzione così bella all’essere cavallo che gli faceva scrivere (in una epoca dove nemmeno la vita dei bambini poteva permettersi di essere considerata troppo preziosa) che non esistono cattivi cavalli, ma solo cavalieri che li rovinano.
Per saperne di più:
The Horse as Cultural Icon, Peter Edwards, Karl A. E.. Enenkel, Elspeth Graham – Brill 2011
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La situazione in Europa, e non solo.
Di fatto, nella seconda metà del XVII secolo, la Francia era incontestabilmente il paese più potente del vecchio continente. Ma anche la Svezia era cresciuta parecchio sotto la guida del grande Gustavo Adolfo (papà di Cristina, la regina più anticonformista di tutti i tempi e amazzone raffinata), l’Inghilterra grazie all’Atto di Navigazione del 1651 poneva le basi del suo monopolio commerciale su mari ed oceani e diventa nel 1688 la nazione più libera del suo tempo: aveva chiamato a fare il re Guglielmo d’Orange al posto del detestabile Giacomo II. Guglielmo era sostenuto dalla classe media, rapprensentata politicamente dal partito dei whigs. Questi ultimi prendevano il nome dai Whiggamores, ladri di cavalli scozzesi che nel 1640 avevano marciato su Edimburgo per contestare re Giacomo. E la nostra Italia? Languiva ancora dopo le guerre del XVI secolo, flagellata da una peste che diede buon materiale per i Promessi Sposi ma ridusse il Bel Paese a sopravvivere sui propri allori, o poco più. Culturalmente gli italiani producevano ancora risultati importanti, grazie alla ricchezza delle conoscenze sedimentate grazie alla vivace e ricca vita intellettuale dei secoli precedenti: ma politicamente eravamo assolutamente morti, preda di spagnoli, francesi e Asburgo assortiti che si litigavano il possesso delle nostre città.