Roma, 18 luglio 2019 – A dire la verità più che l’amore fu la guerra a regalarci, subito dopo la fine del primo conflitto mondiale, 109 preziosissimi cavalli Lipizzani: vennero consegnati al Regno d’Italia dagli austriaci esattamente il 17 luglio 1919.
In questo primo nucleo erano rappresentate tutte le 6 linee classiche maschili e 13 famiglie femminili sulle 15 esistenti: vennero accolti con tutti gli onori e scrupolosamente custoditi a Lipizza (che tra le due guerre mondiali era territorio italiano), la culla della razza, fino a quando un’altra guerra arrivò a distruggere la tranquillità di uomini e cavalli.
Era il 1943, dopo l’8 settembre la Germania invase il litorale adriatico italiano e quindi anche Lipizza: i tedeschi portarono tutti i cavalli a Hostau, a poca distanza da Praga, e i Lipizzani tornano in Italia solo il 18 novembre del 1947.
Erano una parte di quelli salvati dal generale Patton dopo l’eroico spettacolo di Podhajsky e vennero trattenuti in Italia durante il loro trasferimento per via ferrata verso Lipizza, diventata ormai Jugoslava, mentre transitavano per il Brennero.
Ed erano meno della metà di quelli requisiti dai tedeschi nel ’43: 5 stalloni, 42 fattrici e 33 puledri.
Come i primi 109 del loro sangue arrivati in Italia, anche questi vennero trattati con il riguardo necessario ai discendenti di una schiatta imperiale: ma per evitare futuri problemi questa volta vennero tenuti lontani dai tribolati confini patrii e domiciliati a Montelibretti, in provincia di Roma.
E sono ancora lì, sapete? Sui colli dolci con cui cominciano Monti Sabini, dove i pascoli ancora verdi di questo dicembre mite si infilano sotto le querce dei boschi attorno, rossi di foglie color rame che stanno così bene contro l’azzurro smalto del cielo di oggi, limpido e sereno.
Siamo venuti all‘Allevamento Statale del Cavallo Lipizzano gestito dal CRA (Consiglio per la Ricerca e la sperimentazione in Agricoltura) per vederli da vicino: e pur conoscendo bene la storia i questi nobili austrici ormai naturalizzati italiani non avevamo una idea precisa di quello che avremmo trovato.
Provate a pensarci: non deve mica essere facile doversi curare degli eredi di una tale schiatta, abituata ai lussi imperial-regi della splendida corte viennese.
E come hanno risolto la faccenda qui a Montelibretti? Semplice, lasciando perdere i fronzoli dorati di asburgica memoria e pensando solamente ai cavalli.
Per la precisione 110 Lipizzani (erano 145 nel 2013), un nucleo entro il quale la scrupolosa programmazione scientifica dei piani di accoppiamento mantiene una percentuale di consanguineità decisamente contenuta (siamo nell’ordine dello 0,1-0,22%), la presenza di tutte e 6 le linee maschili classiche e 11 delle 15 famiglie femminili: tutte cifre che abbiamo viste tradotte in cavalli in carne e ossa qui, nel centro del Crea – Centro di Ricerca Zootecnia ed Acquacoltura.
E che cavalli: ne avevamo parlato qualche anno fa con il dottor Alfonso Carretta, allora direttore dell’allevamento: vi riportiamo qui l’articolo usccito su Cavallo Magazine nel 2013.
«Solo un numerodi soggetti come questo permette di mantenere un grado di consanguineità accettabile e conservare al contempo le linee storiche» spiegava Carretta, «con un numero inferiore di riproduttori sarebbe impossibile. Ma noi siamo orgogliosi di riuscire, volendo risalir per li rami familiari dei nostri cavalli, a rintracciare tutte le linee storiche classiche senza buchi genealogici».
In cosa si traduce, praticamente parlando, una selezione così lunga e accurata?
«Al di là delle caratteritiche morfologiche tipiche della razza, in cavalli che sono pronti a diventare amici dell’uomo: l’attitudine al lavoro è sempre stato il criterio fondamentale per la scelta dei riproduttori Lipizzani e noi ci accorgiamo, con ogni nuovo puledro, di quanto sia congenita questa inclinazione. Sono soggetti tardivi rispetto ad altre razze: bisogna saperli aspettare, il lavoro noi non lo facciamo cominciare ma prima dei 4 anni. Ma ripagano la pazienza di chi li attende con tanta volontà, grande capacità di apprendimento e calmarsi nelle difficoltà. Sono cavalli che mantengono il lavoro appreso nel tempo, che amano e cercano il rapporto con l’uomo: amici, veri amici».
Mentre parliamo con il dottor Carretta guardiamo lavorare Conversano Lipizza, 5 anni, uno stallone dal mantello ancora in parte pomellato dal modello potente, pieno di energia: «Ha una settimana di sella» ci dirà Domenico Giosi, il suo cavaliere «ed è uno stallone che ha fatto una stagione di monta brada nel branco. Eppure ha già imparato a non avere grilli per il capo quando è sellato, nonostante le fattrici siano qui nei paddock a pochi metri di distanza. Ha tanta testa, non c’è niente da dire».
Conversano Lipizza adesso è stato svestito, Domenico ci gioca in maneggio e lo stallone un po’ lo segue al passo come un cagnolino, un po’ si prende il gusto di sentirsi bello e leggero allungando un trotto sospeso da lasciarci senza fiato.
Quanto è bello quando scherza con la sua forza così, con un orgoglio privo di qualsiasi malizia e qualcosa di generoso nel concedersi alla nostra ammirazione.
Il dottor Carretta ci spiega che vengono lavorati molto alla longe prima di essere montati, e tutto il lavoro di preparazione viene ripagato dalla facilità di movimento che vediamo in Conversano Lipizza: pienamente in equilibrio, armonioso, capace già di raccogliersi ed allungare l’andatura con la naturalezza di un cavallo da sella già maturo e con molta più esperienza.
E’ un piacere stare a guardarlo mentre si muove in libertà ma vogliamo vedere anche le fattrici e i puledri al pascolo, così ci stacchiamo da lui e seguiamo l’uomo che si occupa della distrbuzione dell’orzo nei vasti paddock dell’azienda.
I branchi sono omogenei per età e sesso e vanno dai puledri appena svezzati alle fattrici più anziane, ma quando sentono arrivare il trattore della merenda tutti si avvicinano alle mangiatoie: i puledri nati quest’anno si ammucchiano come ragazzini durante la ricreazione, uno sopra l’altro coi faccini svegli incorniciati dalla loro prima capezza da cui pende uno spezzone di corda. La scozzonatura comincia adesso per loro, con gradualità e dolcezza di abitueranno ad essere accostati e maneggiati dall’uomo.
Assieme a giovani c’è un vecchio stallone grigio che fa il burbero e amministra la disciplina, i piccoletti lo rispettano e gli lasciano una porzione più ampia della mangiatoia comune, stipandosi tumultuosi all’estremità opposta.
Poi vediamo i puledri di due anni, ancora sottili e con qualcosa di adolescenziale nella figura, gentili e delicati. Si comincia a vedere la differenza nel branco dei 3 anni, loro sono giovanotti già solidi, più indipendenti uno dall’altro: non cercano più la vicinanza dei compagni appoggiandosi loro spalla a spalla, ma si fermano sicuri sugli appiombi e ti guardano intrepidi soffiando dalle froge qualcosa che finisce con un punto interrogativo.
Senza paura e nessun imbarazzo per il profilo della testa che non ha più la leggerezza del puledro ma non ancora la fierezza del cavallo adulto, o per il mantello che sta diventano altro dal quello della loro infanzia .
Ma tra tutte ci è rimasta negli occhi e nel cuore la scena del branco di una trentina di fattrici, giù nella valle, incastonate nel verde smeraldo del pascolo e contornate dai profili delle colline più lontane: il loro mantello color latte è luminiscente nella luce di questo mattino di sole invernale, immobili e silenziose come sono sembrano le protagoniste di un sogno incantato.
Caute e prudenti, dopo lunga consultazione hanno deciso di salire verso di noi: la prima entra nel passaggio che porta al pascolo superiore, poi la segue una lunga fila di giumente dal mantello candido che rompe al trotto e poi al galoppo, il prato morbido assorbe il poco rumore degli zoccoli sferrati e loro arrivano in attimo, leggere, fin quasi a farsi sfiorare.
Siamo stati fortunati a vederle dal vero, ad essere lì in quel momento perfetto: un solo piccolo momento che è possibile vivere grazie ad una razza di cavalli che ha tre secoli di storia, e ad una realtà come quella di Montelibretti, che li mantiene vivi per noi.