“Artemide, signora di Limna marittima
e degli stadi rimbombanti di cavalli, oh,
poter essere nelle tue pianure, poter
domare i puledri veneti!”
(Euripide, Ippolito, 228-231)
Bologna, 24 dicembre 2020 – Ogni cosa ha una propria storia. Un’origine da cui tutto si è sviluppato e che in molti casi l’ha condotta fino a noi. In altri casi invece, quella preziosa gemma del passato si è nascosta nelle pieghe del grande capitolo dell’uomo che si chiama storia appunto. Se in Italia si considera la tradizione equestre, nella maggior parte dei casi vengono in mente la Toscana o il Lazio, perché sono le regioni che hanno traghettato le proprie tradizioni equestri più vicino ai giorni nostri. Ma, approfondendo con passione, ce ne sono altre. Il Veneto per esempio…
La centralità del cavallo presso le antiche popolazione Venete è un dato inequivocabile, ribadito dalle fonti letterarie, dai manufatti e dalle immagini relative ai cavalli: c’è assoluta concordanza in queste fonti nel sottolineare il ruolo primario, da protagonista, di questo animale fin dal I millennio a.C.
Molti scrittori illustri, greci e latini, quali Omero, Alcmane, Esiodo, Pindaro, Plinio, Strabone associano il popolo dei Veneti alla fama dei cavalli da corsa che allevavano, usati nelle corse delle principali competizioni sportive del mondo greco. Sappiamo che nel 440 a.C. Leonte di Sparta vinse la 85ma Olimpiade proprio con dei cavalli veneti; così pure il geografo Strabone racconta che il tiranno di Siracusa, Dionigi il Vecchio, per il suo allevamento di cavalli da corsa volle i famosi puledri veneti.
La storia narra che i Veneti antichi fossero famosi per la cura e la particolare prestanza dei propri cavalli. L’importanza del cavallo è attestata anche dalla presenza di questo animale nelle necropoli degli antichi veneti.
Il culto del cavallo si manifestò nei doni votivi ai santuari e nei rituali funerari: il sacrificio dei cavalli era un’usanza per onorare eroi e defunti. Tale rito è ricordato anche da Strabone che riporta come in onore di Diomede, nel santuario alle foci del Timavo, i Veneti fossero soliti sacrificare un cavallo bianco.
Tuttavia il sacrificio di un animale tanto importante come il cavallo era senza dubbio un fatto molto cruento oltre che un grave danno economico per chi lo sacrificava ed ecco perché nelle necropoli si sono ritrovate assai spesso statuine di cavalli in terracotta, segno di un più congruo sacrificio virtuale che soddisfaceva comunque il rito.
Il grande tragico ateniese Strabone non fu il solo autore che abbia citato i cavalli.
Il primo fu infatti Omero. Egli cantò l’impeto e il coraggio di quei destrieri dal manto bianco, che i Veneti di Paflagonia (regione dell’Asia Minore) impiegarono nel vano tentativo di portare aiuto alla città di Troia assediata da anni.
La fama di questa razza raggiunse in seguito Roma dove, durante i ludi circensi imperiali, una delle squadre in gara era denominata la “veneta factio”.
Per non parlare delle battaglie contro i Galli in cui ancora si distinguevano per valore cavalli e cavalieri. Il cavallo poi figurava come merce pregiatissima insieme all’ambra e alla lana nelle liste d’esportazione a Porto Equilium (odierna Jesolo) nel lido Altinate.
E ancora Strabone ci tramanda una affascinante leggenda che vede l’amicizia fra uno splendido lupo bianco, scampato alla morte sicura per mano dei cacciatori di frodo, e un branco di candidi cavalli.
Osservando l’oggettistica di produzione veneta si può ancor meglio toccare con mano l’importanza del cavallo che nel Veneto dell’Età del ferro (VI-II secolo a.C.) era simbolo di virtù aristocratica. Dai santuari dei veneti antichi di San Pietro Montagnon, Padova, Este, Altino, Lagole di Cadore sono centinaia le lamine in bronzo e i bronzetti a tutto tondo con cavalli e cavalieri. Corse di cavalli con premiazione dei vincitori sono testimoniate dalla lamina e dal lébete trovati nel fiume Bacchiglione. Mentre Este ha restituito morsi e bardature da parata. E non mancano scelte “alla moda” legate a influssi stranieri, come sembrano indicare i morsi da Vigasio, Altino, Adria, Feltre e Santa Maria di Zevio, dagli evidenti richiami al mondo celta.
Con l’avvento dei Romani la tradizione veneta del cavallo non scompare del tutto. Troviamo ancora sepolture di cavalli (Padova, Arcole, San Pietro di Rosà), ma soprattutto continuano le competizioni di cavalli in grandi edifici appositamente predisposti, i circhi.
E quello che è curioso, è che in queste manifestazioni ippiche una delle quattro squadre impegnate nella corsa delle quadrighe si definiva “veneta” ed era contraddistinta da gualdrappe di un intenso colore azzurro mare.
Ma fuor da ogni leggenda la vera razza Piave è documentata con sicurezza a partire dall’inizio dell’Ottocento e deriva da incroci con stalloni di sangue arabo.
Due erano le varietà, una più piccola adatta alla corsa, la seconda invece impiegata per il traino.
Si sa poi che l’appellativo “razza Piave”, come blasone popolare, è passato dal mondo animale a quello umano nel corso della Grande Guerra.
Le traversie vissute in quegli anni dalle genti nate sulle rive del Piave, non fecero altro che rafforzare le loro tempre fiere e orgogliose già indurite dalle alluvioni e dalle carestie.
“Non c’era più se non un fiume in Italia, il Piave: la vena maestra della nostra vita”.
Gabriele D’Annunzio
AP