Bologna, 20 settembre 2019 – Dalla Mongolia con furore: Gengis Khan e i suoi uomini sono passati alla storia come sterminatori seriali, che lasciavano solo desolazione e morte dove passavano.
Il che in parte è vero: ma dietro quella fama di crudeltà perfettamente funzionale allo scopo che aveva il Khan mongolo, cioè conquistare il mondo allora conosciuto, c’era qualcosa di molto diverso da un sempice e selvaggio mucchio di cavalieri lanciati al galoppo per tutta Europa: c’era un’organizzazione meravigliosa.
Gengis Khan infatti aveva forgiato un’altra arma formidabile: il suo esercito di cavalieri mongoli.
Aveva applicato agli usi di guerra la disciplina ferrea delle cacce tradizionali della steppa, che difatti erano la base di ogni esercitazione annuale obbligatoria per tutti gli uomini abili.
I cavalieri, tanti o pochi che fossero, partivano anche da più di un centinaio di chilometri per radunare la selvaggina in una ampia porzione di territorio tenendola all’interno della loro cerchia.
Man mano che i cavalieri si avvicinavano lo spazio disponibile per le vittime diminuiva, rendendole furiose o pericolose o comunque sempre pronte a tentare la fuga – a seconda della specie cui appartenevano i capi.
Venivano lasciati scappare gli esemplari troppo giovani o le femmine gravide, era invece prevista una punizione corporale per il cavaliere che si fosse lasciato sfuggire una delle vittime predestinate che dovevano essere uccise con arco e frecce, mazze o all’arma bianca.
Gli ordini nell’esercito mongolo venivano dati per mezzo di bandiere, quindi seguendo un codice ben preciso che richiedeva allenamento costante per una risposta tempestiva ed utile.
Ogni mongolo aveva almeno cinque cavalli di ricambio oltre a quello che montava, e nella retroguardia del loro esercito c’era sempre un grande numero di altri cavalli pronti a sostituire gli altri: era questo il segreto della loro velocità, avevano non solo cavalli resistentissimi ma li cambiavano continuamente, per mantenerne la freschezza anche in marcia e percorrere così quando necessario anche 120 km. al giorno.
Un altro aspetto fondamentale del successo mongolo era la cura con cui veniva predisposto ogni dettaglio di abiti, finimenti e armi.
Gli indumenti che i cavalieri portavano sula pelle erano di seta leggermente imbottita, perché in caso fossero colpiti in modo non mortale nella ferite penetrasse meno sporco possibile e fosse quindi più facile la guarigione.
Giovanni di Pian del Carpine, un francescano missionario nato in provincia di Perugia nel 1182 e mandato come inviato del Papa presso il Gran Khan, ha descritto bene l’equipaggiamento dei conquistatori delle steppe.
«Ogni cavaliere aveva due o tre archi, tre faretre piena di frecce, una scure e corde per trascinare le macchine da guerra. I cavalieri più ricchi avevano anche spade ricurve che tagliano da un solo lato. I cavalli portano una armatura divisa in cinque parti in modo da essere protetti da tutti i lati, quelle degli uomini sono di cuoio con l’elmo di ferro e le protezioni per la gola e il collo ancora in cuoio. Le lance hanno la punta ad uncino per tirare i nemici giù di sella, i mongoli portano sempre con sé una lima per appuntire le frecce e ne usano di particolari, larghe tre dita, per tirare agli uccelli, alle bestie e agli uomini senza difesa».
L’unità di base dell’esercito mongolo era il plotone di dieci cavalieri; dieci plotoni formavano uno squadrone, dieci squadroni un reggimento, dieci reggimenti un tuman che era quindi formato da 10.000 uomini a cavallo.