Campobasso, 13 maggio 2020 – Gli amici degli amici sono anche miei amici: per cui grazie all’amico Giuseppe Angiulli, che come solito rende prezioso il tempo passato a chiacchierare insieme regalandomi storie che non conoscevo.
Come quella della famiglia Monaco, che da quattro generazioni costruisce e ripara basti in Molise, alle pendici del massiccio del Matese.
“Sembra strano che, nell’era della fibra ottica e della tecnologia applicata in tutte le sue forme, si possa incontrare un giovane che si cimenta nella costruzione di questo rudimentale ma indispensabile strumento di lavoro”, ci spiega Angiulli, un passato nell’Esercito e una passione per gli attacchi da lavoro che gli viene dal padre e dal nonno e che lui ha poi allargato a tutto quello che può essere condotto a redini lunghe.
“Eppure Antonio Monaco, un giovane di Bojano ha voluto continuare una tradizione di famiglia che nasce lontano, sia nel tempo che nello spazio” racconta Giuseppe con quell’accento gentile che tradisce ancora le sue radici pugliesi e continua: “Bojano è una cittadina nata come tante altre lungo quelli che erano i tratturi di transumanza di cui il Molise è ricco. E non casualmente proprio in Molise abbiamo la patria dei bastai, Capracotta: un piccolo comune che ha fatto registrare il record mondiale di nevicata più intensa, con ben 256 cm. di coltre bianca in meno di 18 ore caduti il 5 marzo del 2015. Da qui sono partiti gli avi di Antonio ormai un secolo fa per stabilirsi a Bojano, dove hanno continuato l’arte del bastaio. Perché ci vuole arte nel costruire questo oggetto che da secoli viene utilizzato sul dorso di asini, muli o cavalli per il trasporto sia di uomini che di cose”.
Anche il basto viene da lontano…
“Sì, il latino “bastum” è un termine che deriva dal greco “bastazo”, che significa “porto sopra, trasporto”. Infatti il basto era uno strumento di lavoro dei vaticali (termine derivato da viaticaro, cioè uomo della via ma anche conduttore di muli, di asini), degli agricoltori, una sella robusta destinata ad animali da soma per il trasporto. Inoltre nella stessa categoria si connota quella che in dialetto è chiamata “varda”, termine derivante dall’arabo varda’a o dal medioevale “bardatura”, ma anche “‘mmoste”. Ragion per cui l’artigiano che lo produceva era il “ bastaio” e costruire la varda è detto “vardare” o “mmastare”.
Si somigliano così tanto questi arnesi?
“Sarebbe in realtà opportuno fare una piccola distinzione: la varda è un basto più leggero, che può essere utilizzato anche come sella. Viene infatti solitamente sormontata da una bisaccia nella quale veniva riposto il raccolto giornaliero per il fabbisogno della famiglia- potevano essere verdure piuttosto che quantità minimali di prodotti agricoli e non solo – poi sormontata da una pelle di capra sulla quale sedeva il conduttore. Inoltre sulla parte superiore ha una forma più arrotondata, in poche parole una sella senza arcione”.
Ma torniamo alla famiglia Monaco, che si era trasferita a Bojano da Capracotta.
“Giusto: e al bisnonno Michelangelo Monaco che continua il suo mestiere accreditandosi la fiducia dei mulattieri per la perfezione dei suoi basti e delle sue varde. Mai nessun mulo si è fiaccato per un basto fatto da Michelangelo, perché come lui ben sapeva è molto importante che questo magnifico strumento di lavoro sia a misura dell’equino cui è destinato”.
Quali sono i principi fondamentali per la costruzione di un buon basto?
“Per fare un basto che non dia problemi all’animale bisogna tener presenti innanzitutto le misure della schiena cui è destinato, e farlo in proporzione alla lunghezza del dorso dell’animale. Poi è importante capire su quali terreni deve lavorare, se molto scoscesi o se in pianura”.
Quali sono le materie prime utilizzate per costruirlo?
“Nella realizzazione del basto parte determinante della buona riuscita è il tipo legname e la forma del tronco da utilizzare. Vengono scelti tronchi curvi di faggio, per poter dare la rotondità della schiena senza togliere la venatura al legno in modo che sia più resistente (vedi qui per gli arcioni del seddazzu sardo, n.d.a.). La fase successiva è la realizzazione del cuscino che deve poggiare sulla schiena: che deve essere realizzato in tela, una volta tessuta dalle donne locali su antichi telai, onde permettere la traspirazione del sudore”.
Chi ha continuato il lavoro di Michelangelo Monaco?
“L’eredità di nonno Michelangelo è stata raccolta dai figli Luigi e Antonio, che si sono distinti per le loro capacità non solo di costruire questi magnifici basti ma anche di commercializzarli, infatti non c’era fiera dove i due fratelli non fossero presenti e spesso affrontavano giorni di viaggio per consegnare i loro capolavori. Il signor Luigi ha voluto che il figlio Geronimo imparasse l’arte e continuasse, anche se il mestiere non era più abbastanza remunerativo: ma la collaborazione di tutta la famiglia ha permesso a Luigi di potersi mantenere e trasmettere quella che ormai è una passione ultra secolare ai figli Antonio e Luigi”.
Lavorano entrambi ai basti, ancora oggi?
“Luigi pur avendo imparato l’arte del bastaio ha scelto una strada professionalmente più moderna, la posa in opera della fibra con società che operano nel campo della telefonia. Ma quando può non disdegna di aiutare il fratello Antonio nel realizzare questi splendidi manufatti che fanno parte di quella sapienza artigianale italiana tanto apprezzata anche oltreconfine”.
Una storia che ci insegna tanto: non solo riguardo ai basti, ma anche per quanto attiene alla solidarietà e all’importanza che si riconosce ad un determinato patrimonio culturale, importanza capace di motivare una azione di gruppo come quella della famiglia Monaco volta a salvare una sapienza che sapevano sarebbe stata altrimenti perduta.
E adesso aspettiamo che Antonio Monaco finisca la varda con cui Giuseppe Angiulli farà un pellegrinaggio a dorso di mulo: e siamo sicuri ci sarà un altro bel racconto per noi, una volta terminato il viaggio.