Bologna, giovedì 5 dicembre 2024 – Tutti noi abbiamo sentito notizie e visto foto del celebre album di Beyoncé: Cowboy Carter, uscito lo scorso marzo. Una grande campagna mediatica ha accompagnato la sua uscita acclamandolo come l’esordio nel genere musicale country dell’artista. Il ritorno del black country. Certamente questa è una grande rivincita, soprattutto se si pensa che fino a non molto tempo fa gli artisti country afroamericani potevano esibirsi unicamente nei “Chitlin’ Circuit”, ossia quei locali poco raccomandabili dove veniva servito il Chitlin, un piatto povero fatto con le interiora di maiale (e con cui spesso venivano anche pagati gli artisti stessi).
È stata una lunga strada quella percorsa da questo genere musicale: dai malfamati locali Chitlin ai riflettori dei concerti di tutto il mondo. Ma altrettanto lungo è il viaggio percorso da tutte quelle cowgirls afroamericane che sono rimaste per troppo tempo dietro le quinte, avvolte nella polvere.
Nonostante la segregazione, nonostante le note leggi di Jim Crow che limitavano le libertà e i diritti fondamentali, nonostante le, ancora troppo tristemente diffuse, discriminazioni razziali e sociali, ebbene, le cowgirls afroamericane resistono ed esistono davvero.
Non solo esistono, ma costituiscono il fulcro di una grandissima parte del mondo western che sembra essere, stranamente, dimenticata. Una dimenticanza questa, che ha radicato in tutti noi un’immagine così precisa e nitida del cowboy: un uomo bianco che galoppa sul suo quarter horse intorno a una mandria, magari al tramonto, immerso nella luce riflessa dalla polvere.
Forse c’era troppa polvere, ma possiamo assicurarvi che, durante l’epoca del Far West, quel cowboy non era per forza un uomo bianco ma, più probabilmente, era una persona afroamericana o indigena.
Storicamente, il West americano, specialmente lungo il confine sud-occidentale, è sempre stato uno spazio culturalmente eterogeneo, multilingue e sessualmente flessibile. Afroamericani o indigeni, che fossero schiavizzati o liberi, svolgevano un ruolo centrale nell’industria dell’allevamento.
Soprattutto con la fine della guerra tra Messico e Stati Uniti, a metà 1800, quando vaste zone del Messico si trasformarono in bottino di guerra per la vincente America del Nord. Qui, con la terra, arrivò anche un’importante forza lavoro costituita da afroamericani ridotti in schiavitù insieme ad alcune delle più potenti tribù indigene. Insieme contribuirono ad adattare la cultura vaquera ispanica alle pratiche della pastorizia nordamericana a cavallo. Si stima che i mandriani, addestratori e allevatori di colore, collettivamente chiamati cowboy, costituissero fino a oltre un quarto dei lavoratori dei ranch. Sarà, quindi, un caso che proprio la canzone country per eccellenza: “Home on the Range”, sia stata raccolta da un cowboy bianco che sentì cantare proprio un cuoco afroamericano mentre lavorava in uno spostamento di bestiame, in Texas?
Ma ritorniamo a quel cowboy che galoppava al tramonto tra la polvere alzata dal bestiame, a osservarlo meglio, se si guarda con attenzione, mentre galoppa tra un manzo e l’altro, possiamo vedere che sì, forse è proprio una donna. Una donna afroamericana o indigena. Una black cowgirl.
Come dicevamo le cowgirls indigene e afroamericane esistono e sono sempre esistite, migliaia di amazzoni che si perdono in una delle tante notti della dimenticanza per scomodità, culturale e sociale. Oscurate dalla cultura popolare sono riuscite a sopravvivere ugualmente trasmettendo la passione e l’amore per i cavalli alle generazioni di donne che le hanno seguite e in questo l’album Cowboy Carter è certamente una delle più grandi testimonianze della loro resistenza.
Tutt’oggi numerose cowgirls di colore accorrono per partecipare ai vari rodeo, primo fra tutti: Bill Pickett Invitational Rodeo (BPIR). Questo è l’unico rodeo itinerante per afroamericani degli USA, fondato da un cowboy, afroamericano ovviamente, di nome Lu Vason a Denver, in Colorado, nel 1984, è guidato, non a caso, da una donna (afroamericana): Valeria Howard-Cunningham.
“Nel corso degli anni, la gente non sapeva che esistessero cowboy e cowgirl di colore” racconta Valeria Howard-Cunningham, “quindi abbiamo accresciuto con successo la nostra reputazione nelle comunità. Facciamo il tutto esaurito a ogni nostro spettacolo in tutto il Paese, non importa dove andiamo. La comunità ci sta abbracciando.”
Non sarà mai possibile riscrivere la storia, ma possiamo iniziare a raccontarla in un modo diverso, più giusto e veritiero.
“Vedere bambini di diverse comunità che non hanno mai visto un cowboy o una cowgirl di colore, vale più di quanto il denaro possa mai comprare”, commenta sempre Valeria Howard-Cunningham. “I libri di storia non insegnano certe cose. Ciò che stiamo facendo noi è stato fargli rivivere la storia per educarli”.
La pubblicazione dell’album, e soprattutto la copertina, di Cowboy Carter di Beyoncé non rappresentano una rivincita musicale, ma è una forma di giustizia storica e culturale per tutte quelle amazzoni indigene e afroamericane dimenticate o oscurate. Volete sapere come si chiama la più grande e famosa black cowgirl dei nostri giorni? Carolyn Carter, ogni riferimento è lecito.