Bologna, 29 novembre 2023 – E’ risaputo che i cavalli siano arrivati per la prima volta in America con i colonizzatori europei, Spagnoli e Portoghesi, destando, oltre che stupore, un vero e proprio terrore tra i nativi americani.
I libri di storia ci dicono che il cavallo fu un indispensabile strumento di conquista coloniale e che lo stesso Hernán Cortés avesse detto: “Dopo Dio, dobbiamo la nostra vittoria ai cavalli”.
Ebbene, oggi possiamo affermare che non è vero!
C’è un’altra valida ipotesi sull’arrivo dei cavalli nel Nuovo Mondo che potrebbe riscrivere una parte, per noi ovviamente molto importante, della storia americana. Cavalli non più come strumento di conquista dei colonizzatori. Niente supremazie e niente storie di stragi.
In questa nuova versione della storia non vediamo il fumo di villaggi incendiati e non sentiamo le urla delle battaglie, ma in primo piano osserviamo dei placidi e mansueti, oltre che bellissimi, appaloosa che pascolano in distese d’erba del nord America.
Ed è qui che inizia questa nostra storia (vera).
In verità, se dobbiamo essere onesti, la storia inizia qualche anno fa in un tranquillo pomeriggio in Nuova Zelanda.
Un’anziana signora di nome Scott Engstrom, di cui per rispetto non riveleremo l’età, guarda la televisione dopo aver governato i propri appaloosa, in attesa della sera.
Dobbiamo ora soffermarci e sottolineare che la signora Scott Engstrom è una grandissima appassionata e allevatrice della linea di sangue Foundation Appaloosa, che si distingue da quella moderna appaloosa in quanto ha lo scopo di salvaguardare dall’estinzione i cavalli selezionati dai Nez Perce: la tribù di nativi Americani che hanno fatto di questa razza di cavalli il loro più prezioso patrimonio culturale.
Ritornando al sonnolento e nuvoloso pomeriggio, la signora Scott Engstrom decide di guardare una docu-serie ambientata in vari Paesi del mondo (intitolata Il giro del mondo in 80 mestieri di Conor Woods). Improvvisamente accade l’impensabile: in un episodio ambientato in una fiera agricola di uno sperduto villaggio del Kirghizistan appare un appaloosa.
Non in South Dakota, non in Portogallo e non in Spagna, bensì c’è un appaloosa, di nome Martin, in Kirghizistan, una delle ex repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale confinante con la Cina ed il Kazakistan. Dal nostro punto di vista eurocentrico possiamo dire che sia sicuramente uno dei posti più remoti ed isolati in assoluto, se consideriamo che il 94% del suo territorio è oltre i 3.000 mt di altitudine ed in buona parte ricoperto da nevi e ghiacci perenni.
Ovviamente l’apparizione di questo appaloosa in una piccola e caotica fiera di uno sperduto villaggio del Kirghizistan potrebbe non avere alcun valore per la maggior parte delle persone, ma bisogna ricordare che una delle teorie che da sempre è presente nel substrato della storia d’America, è la possibilità che i cavalli, oltre che le persone, arrivarono per la prima volta in questo continente attraversando lo stretto di Bering che, più di 8.000 anni fa, collegava l’Asia con il Nord America.
Un raggio di speranza attraversa la penombra del salotto della signora Engstrom, illuminando la sua vita, come mai si sarebbe aspettata: avevano ragione Lewis e Clark quando, nella loro spedizione del 1804-1806, scrissero che videro mandrie di migliaia di esemplari di cavalli dagli “strani colori” nelle praterie del Nord America; aveva ragione lei a pensare che queste mandrie così numerose non potessero essere formate solo dai discendenti dei cavalli spagnoli portati dai colonizzatori; se l’appaloosa del Kirghizistan è un vero appaloosa, esiste un’altra storia rispetto a quella che ci hanno sempre raccontato: una storia fatta di migrazioni che non sono colonizzazioni, una storia che non è fatta di conquiste e di popoli “civilizzati”, ma solo dell’ incontro di persone, di culture e di specie diverse tra di loro.
Da questo momento in poi ha inizio l’avventura di Scott Engstrom (diventata anche un documentario dal titolo The true Appaloosa) che vola in Kirghizistan alla ricerca dell’appaloosa di nome Martin.
Richard Aldington diceva che “l’avventura permette che accada l’inaspettato”, e così è stato per la protagonista della nostra storia. E’ successo l’inaspettato, che non è il ritrovamento dell’appaloosa Martin, di lui, poverino, si sono perse le tracce, anche se confidiamo che abbia trovato una buona famiglia dove vivere. L’inaspettato è stata la scoperta che anche nella storia della dominazione Sovietica del Kirghizistan, molto più recente rispetto ai conquistadores del Nuovo Mondo (che poi, forse, tanto Nuovo non era anche all’epoca), alcune tribù nomadi di questo Paese che vivono tutt’oggi sugli altipiani, si ribellarono all’imposizione russa di estinguere i loro cavalli Kirghizi “maculati” (chiamati Chaar) e riuscirono, invece, a salvarli.
Fortunatamente, abbiamo anche scoperto che ci vuole ben altro per fermare la signora Scott Engstrom, che, da vera donna di cavalli, è rimontata in sella e non si è fatta intimorire dai lupi, dal lungo viaggio o dal passo di montagna ad oltre 4.000 metri di altitudine, luoghi noti per non essere mai troppo generosi di ossigeno, ed è arrivata fino a un villaggio di nomadi nella valle di Alay, per vedere dal vivo le mandrie di questi cavalli Kirghizi salvati dagli ordini di abbattimento, e che ancora oggi vivono in modo quasi selvaggio tra le montagne del Kirghizistan.
Ed è su questi lontani altipiani che il raggio di speranza che aveva attraversato il salotto della signora Scott Engstrom diviene luce che illumina una nuova consapevolezza: sono veri appaloosa, e non tanto perché hanno gli zoccoli striati, la tipica sclera degli occhi, il colore, ovviamente, del mantello, ma perché hanno anche il loro passo, la loro andatura che nessun altro cavallo al mondo ha: l’Indian Shuffle.
Sono loro, sono appaloosa perché soltanto loro hanno quel passo. Nessun altro cavallo ha questi movimenti. Soltanto loro hanno l’Indian Shuffle, quell’andatura così particolare ed unica che il cavaliere ha la sensazione che il movimento sia di un bipede laterale e non di un quadrupede.
Quel passo ha rivelato che può esistere un’altra storia d’America, un’altra storia dell’arrivo dei cavalli in questo continente e che non per forza è la storia della colonizzazione del Nuovo Mondo, ma che talvolta, anche se i libri di storia stentano a crederci, la storia è fatta solo di incontri e di scambi, senza necessariamente porre l’attenzione sulle differenze e conseguenti opere di conquista.
Tornando alla ricerca di Scott, l’anziana signora non si limita certamente alle apparenze, se vuole fare un’affermazione del genere è necessario avere delle prove inconfutabili e decide quindi di prelevare dei campioni di DNA da questa mandria di cavalli Chaar e di sottoporli a dei test per verificare se effettivamente il loro patrimonio genetico abbia dei tratti in comune con i Foundation Appaloosa odierni.
E le prove inconfutabili arrivano: i risultati della comparazione dei DNA tra esemplari di Foundation Appaloosa e di cavalli Chaar Kirghizi hanno rilevato che le due linee genetiche hanno tanto in comune da far pensare in modo fondato che le due razze possano essere veramente imparentate tra di loro.
Cosa unisce la tribù di nativi dei Nez Perce del Nord America alle tribù degli altipiani del Kirghizistan?
E’ l’amore per quelli che noi chiamiamo Appaloosa, che loro chiamano Chaar, ma che forse dovremmo semplicemente chiamarli dei cavalli “dagli strani colori” e dal passo unico al mondo il cui valore risiede nell’ identità di popoli lontani ma non per questo diversi tra di loro.
Ed è così che si conclude questa nostra storia, con la consapevolezza che quei placidi appaloosa che pascolavano centinaia e centinaia di anni fa nelle praterie del nord America non devono, probabilmente, il loro arrivo alla violenza della conquista spagnola, e potranno continuare a pascolare serenamente, lontani dai rumori delle battaglie dei colonizzatori spagnoli che arriveranno soltanto dopo molti, molti anni.