Milano, 26 gennaio 2018 – Prestigio, sfoggio di ricchezze e importanza sociale: sono i primi valori che associamo all’idea di equitazione di maneggio del periodo Barocco.
Le arie di scuola erano già diventate da tempo stilizzazioni estetiche di antichi gesti necessari in battaglia, una nobilissima scusa per dedicarsi ad una arte raffinata e di grande impatto emotivo ed estetico: quello che ci voleva per far colpo sugli animi estenuati dal lusso di chi viveva nelle corti più sfarzose d’Europa.
Ma era davvero solo questa la cosa importante? Come abbiamo già visto, la figura del maestro di equitazione diventava molto spesso fondamentale nella vita dei regnanti, o dei loro eredi: Robert Dudley divenne il Maestro dei Cavalli di Elisabetta I e condivise con lei per anni lunghissime e piacevoli galoppate (oltre ad altri, meno sportivi, passatempi); Pluvinel vegliò sui progressi equestri di Luigi XIII; qualche anno più tardi il magnifico William Cavendish fece lo stesso con il piccolo re inglese esiliato in Francia, il futuro Carlo II e venne ripagato della sua abilità e fedeltà con un ducato tutto per lui, nuovo di zecca.
Probabilmente quindi c’era un altro valore aggiunto che veniva considerato fondamentale nell’educazione dei futuri potenti e che solo l’equitazione poteva dare: e questo valore aggiunto era il cavallo.
Proprio lui, l’altra metà di ogni cavaliere: che specialmente nel caso dei piccoli gentiluomini doveva essere ovviamente docilissimo, facile e perfettamente addestrato (la mortalità infantile anche tra le famiglie regnanti era altissima, c’era da giocarsi la testa a spalmare un erede al trono qualsiasi sulla sabbia del maneggio) dal cavallerizzo, scudiero o maestro dei cavalli che dir si voglia: poca importanza ha il nome che gli veniva dato nei diversi paesi, doveva comunque sempre fornire soggetti adatti e saper istruire in modo impeccabile i cavalieri a lui affidati.
Che potevano, così, profittare del meraviglioso rapporto che si instaura con ogni cavallo, del tutto immutato nonostante il passare dei secoli.
E ne avevano davvero bisogno, quei piccoli monarchi in potenza: nati e cresciuti in mezzo ai cortigiani, gente che viveva all’ombra dei troni e grazie alle regalie che questi distribuivano a loro piacere e capriccio non avevano praticamente la possibilità di instaurare rapporti umani equilibrati.
Gli unici esseri viventi che venivano in contatto con loro e non avrebbero mai pensato di adularli erano gli animali, e il rapporto con loro era probabilmente l’unico veramente indenne da ogni falsità.
Un cane per la caccia, un cavallo per montare: e l’equitazione era anche considerata una perfetta metafora dell’arte di governare, dove dominando corpo ed emozioni si raggiungeva l’obiettivo di controllare la propria postura e convincere l’altro (il cavallo, in questo caso) a fare quel che si voleva.
Un perfetto esempio di questa educazione elitaria, pianificata sin nei minimi particolari fu quella di Baltasar Carlos d’Asburgo, nato nel 1629 da Filippo IV di Spagna ed Elisabetta di Borbone (figlia di Enrico IV di Francia e Maria de’ Medici, quindi sorella di Luigi XIII).
Questo piccolo principe biondo, unico maschio sopravvissuto all’infanzia tra i suoi fratelli, sembrava benedetto dalla fortuna: a guardarlo nei tanti ritratti che ne fece di lui Velasquez si leggono gli occhi di un bambino dolce, molto compreso nel suo ruolo ma senza il timore di non esserne all’altezza.
Che fosse allevato con tenera attenzione si vede proprio dagli amici che ha vicino nei ritratti ufficiali: in quello dei suoi sei anni, vestito da cacciatore, c’è un cane fulvo con una pezzatura bianca sul muso che fa subito simpatia (ciccioso e sonnecchiante, con gli occhi che si indovinano affettuosi anche da chiusi) e un piccolo, delicato levriero.
Esattamente i cani adatti ad un bambino della sua età, che doveva giocare e non scimmiottare troppo adulte crudeltà.
E i pony rotondi dei suoi ritratti equestri? Immobili per sempre in una perfetta, nobilissima corvetta si capisce bene dai loro occhi brillanti che dovevano essere compagni di gioco meravigliosi, allevati su misura per il piccolo principe delle Asturie che li monta con perfetta disinvoltura e quella grazia innocente che vale ben più della sprezzatura, un po’ presuntuosa, ricercata dai cavalieri adulti della stessa epoca.
Il principe Baltasar Carlos morirà poi a 17 anni per una appendicite: il padre ne sarà distrutto per anni, la ragion di stato gli farà contrarre un nuovo matrimonio alla ricerca di un altro erede (era vedovo dal 1644) ma non supererà mai del tutto la perdita di quel figlio così pieno di promesse e a cui aveva dato, per amici, dei piccoli capolavori di cavalli.