Bologna, domenica 17 marzo 2024 – Si dice che le donne amino quello che comprano, ma odino i due terzi di ciò che hanno nei loro armadi. Soffermiamoci per un attimo a pensare al sistema della fast fashion in cui siamo immersi e daremo inevitabilmente ragione a Mignon McLaughlin.
100 miliardi di indumenti vengono prodotti annualmente, di cui ben 3 pezzi su 5 finiscono entro l’anno nelle discariche. Il vero prezzo di un indumento non è sul cartellino. Il costo di una camicia di cotone è quello dei 15 kg di emissione di anidride carbonica necessari per attraversare cinque Paesi prima di arrivare al consumatore. Un albero impiega 40 anni ad assorbire 15 kg di anidride carbonica. La moda sta correndo una folle maratona alla velocità di un centometrista.
Come potrete immaginare, oggi non vogliamo parlare del legame tra la moda e tutto ciò che rappresenta il cavallo: forza, bellezza e libertà. Vi chiederete, quindi, quale altra relazione possa esistere tra la moda ed i cavalli. Effettivamente, l’unico collegamento evidente tra questi due mondi distanti, ma così vicini, è solo simbolico: sono uno l’Eco dell’altro.
Ma, come sappiamo, Eco rappresenta la storia di un amore struggente, che lentamente avvelena e distrugge. Una distruzione questa che rivediamo quotidianamente nell’impatto a livello planetario della fast fashion, dove la contaminazione del suolo, il consumo di acqua, l’agricoltura OGM impiegata per la produzione del cotone, l’inquinamento delle falde acquifere, sono la faccia oscura di una medaglia che vede solo il 2% dei suoi lavoratori accedere a un salario minimo dignitoso per la sopravvivenza. E insieme a queste persone, lavorano, inevitabilmente, anche i cavalli.
Il contributo dei cavalli è davvero importante, se si pensa che dietro al luccichio dei nostri capi firmati, ci sono i Paesi del Terzo Mondo, dove il lavoro animale rimane ancora un contributo centrale per la vita. Sono ben 600 milioni le persone che tutt’oggi vivono grazie al lavoro quotidiano di equidi (cavalli, muli e asini); inutile dire che per la maggior parte di questi cavalli, il benessere animale, come noi lo intendiamo, non sia neanche lontanamente contemplato.
Da dove ci provengono questi dati? Dalla Fondazione “The Brooke Hospital For Animals”, fondata da una donna, Dorothy Brooke per l’appunto, che ebbe il coraggio di non volgere lo sguardo da un’altra parte ma di assumersi la responsabilità di ciò che si trovò davanti agli occhi quando arrivò al Cairo, nel 1934.
1934 – 2024, sono passati 90 anni, ma il lavoro iniziato da Dorothy Brooke continua, dopotutto gli ideali sono la più bella forma di immortalità concessa all’uomo. Oggi sono più di un milione e mezzo i cavalli lavoratori dei Paesi del Terzo Mondo a cui questa Fondazione è riuscita a garantire una forma di tutela e benessere animale.
“Qui, in Egitto, ci sono ancora molte centinaia di vecchi cavalli militari venduti alla fine della guerra. Ormai hanno tutti più di vent’anni e dire che la maggior parte di loro abbia attraversato un periodo molto difficile è un eufemismo”
Sono queste le parole con cui Dorothy scriveva sul “The Morning Post” per sensibilizzare le persone alla causa dei cavalli da guerra britannici abbandonati in Egitto e rivenduti a basso prezzo come cavalli da lavoro: “Coloro che amano veramente i cavalli – e che si rendono conto di cosa può significare essere molto vecchi, molto affamati, assetati e molto stanchi, in un paese dove il lavoro duro e incessante deve essere svolto in un gran caldo – invieranno contributi per aiutare a donare una fine misericordiosa per i nostri poveri vecchi eroi di guerra, e gli saremo estremamente grati”.
Questi cavalli non erano solo cavalli da guerra, erano prima di tutto dei cavalli che avevano duramente lavorato, prima per l’esercito britannico, poi per chi li aveva acquistati.
Non girarsi dall’altra parte, questo è l’ideale che guida anche un’altra donna, molto distante nel tempo da Dorothy Brooke, ma anche lei inglese, a cui è stato assegnato il premio di miglior stilista emergente dal British Fashion Council e Vogue: Amy Powney, direttrice creativa del brand di moda: Mother of Pearl.
Questa giovane stilista ha deciso di non accettare le crudeli e disumane dinamiche della fast fashion. Ha deciso di assumersi la responsabilità etica, sociale ed ambientale della lunga filiera che precede la creazione delle sue collezioni. I capi che realizza devono essere fatti con tessuti che provengano da realtà sostenibili a livello ambientale e sociale, dove gli animali vengono rispettati.
Il suo è stato un percorso molto difficile e lungo, che non trova, per ovvie ragioni, l’appoggio che tante multinazionali e famosi brand della fast fashion, ma è arrivato ugualmente alla sua realizzazione. Non è un caso quindi che per la presentazione della sua ultima collezione sia stata scelta una campagna promozionale improntata sui cavalli, insieme alla collaborazione con la fotografa Mary McCartney. Ma non è tutto, è stato scelto di mettere all’asta gli scatti fotografici così da poterne devolvere il ricavato per la realizzazione del progetto Real Horse Power, in collaborazione con MIND. Real Horse Power è un’iniziativa volta all’assistenza psicoterapica di bambini e giovani proprio attraverso il rapporto con i cavalli.
In questo nostro mondo, dominato da tutto ciò che è fast, il cui valore di ogni cosa termina nel momento stesso in cui un desiderio o un capriccio vengono soddisfatti, ci dimentichiamo spesso che la maggior parte delle cose che utilizziamo e indossiamo, vengono realizzate in Paesi che ancora sussistono grazie a quella che potremmo letteralmente definire come la “Real Horse Power”.
Dietro a ciò che troppo frettolosamente etichettiamo come “sostenibilità sociale e ambientale”, ci sono non solo lo sfruttamento intensivo e distruttivo di ambiente e persone, ma c’è anche quello dei cavalli. E se la filiera della moda non riesce e non vuole rispettare i diritti umani basilari della società moderna per amore di uno scellerato profitto immediato, come possiamo pensare che vengano trattati i cavalli?
La verità è che la fast fashion è una delle realtà più distruttive del pianeta. Disinteressarsi, girarsi dall’altra parte, è la più grave forma di responsabilità.