Bologna, 9 gennaio 2021 – Siamo all’inizio del 1870. Fino a quel periodo, i cavalli erano stati i silenti e bistrattati eroi del trasporto urbano. Erano stati impiegati negli attacchi pesanti che trasportavano i materiali per l’edilizia e la costruzione dei primi grattacieli. Trainavano carrozze private, ma anche bus per il trasporto pubblico. Consegnavano le merci e il carbone per il riscaldamento, trainavano battelli e le autobotti dei pompieri.
Erano talmente integrati nella vita che camminava a larghi pasi verso il progresso che nessuno si curava più di loro. Né del loro benessere. Né tantomeno, di quanto il loro benessere potesse rivelarsi estremamente utile anche per l’uomo. Come in una specie di irrispettato do ut des.
A quel tempo l’equazione era molto semplice: cavalli=lavoro. E poche storie… Il tempo dei diritti era già abbastanza lontano per le persone, figuriamoci per gli animali.
Ma la ‘livella’ era dietro l’angolo. Nell’autunno del 1872, le città statunitensi (ma anche quelle del Canada e dell’America Centrale) furono il fertile terreno per la diffusione di quella che venne chiamata ‘The Great Epizootic’, la grande epidemia. E allora, esattamente come oggi, tutti iniziarono a preoccuparsi del ‘salto di specie’. Del fatto che l’influenza che stava di fatto falcidiando la popolazione equina potesse aggiungersi a colera, tifo e febbre gialla.
Accanto alla preoccupazione sanitaria, gli americani si resero conto di quanto la loro quotidiana esistenza fosse affidata ai cavalli. In pieno sviluppo economico, ma in un momento in cui non erano ancora pienamente sviluppate tecnologie a vapore o elettriche, si accorsero che appena i cavalli si fermarono, di fatto si fermò la loro stessa società. Questo portò molti a riflettere sul debito che ciascuno aveva nei confronti di questi animali.
Il virus non fece il temuto salto verso l’uomo. Però già a dicembre la sua diffusione fu definita ‘epidemia’ per tutto il nord America dove si portò via oltre 160mila cavalli. I sintomi erano quelli tipici di una influenza: tosse, febbre, spurgo dalle orecchie e ci vollero quasi 20 anni – con gli strumenti del tempo – per isolare i virus.
In compenso, tra coloro che più profondamente si sentirono toccati dal problema ci fu tale Henry Bergh che giocò tutte le sue carte. Già dal 1866 Bergh aveva sollevato il problema del rispetto dei cavalli ed era stato tra i fondatori dell’American Society for the Prevention of Crulety to Animals.
Quindi, quando ebbe modo di sottolineare ciò che era sotto gli occhi di tutti, ovvero l’importanza dei cavalli, portò il suo progetto contro la crudeltà sugli animali fino alla Corte di New York che promulgò la prima legge nazionale contro la crudeltà sugli animali. Lui stesso, insieme ai suoi adepti, si mise a pattugliare gli accessi della Grande Mela, controllando che ogni trasporto fosse eseguito solo con cavalli privi da influenza. In pratica, sani e in condizioni idonee al lavoro.
Molti bus furono fermati. Molti americani si ritrovarono a dover camminare. Ma dopo i primi malumori, dopo anche un po’ di rabbia, e perfino dopo che l’epidemia venne arginata, rimase viva l’idea che era sbocciata in quel momento così nero nella storia dei cavalli.
Vale a dire che non erano più da considerarsi come macchine bensì come partner nella costruzione e nella quotidiana gestione di quelle che allora erano considerate ‘moderne’ città.
Creature forti ma vulnerabili, che potevano aver bisogno della protezione delle leggi.