Bologna, sabato 23 dicembre 2023 – Elio Pautasso, 58 anni, piemontese trapiantato a Roma, amministratore della società che gestisce l’ippodromo di Capannelle nonché presidente di Federippodromi: chi meglio di lui può illustrarci l’attuale situazione degli ippodromi italiani?
«Sono nato a Carignano, un piccolo paese nei pressi di Torino e vicino anche a Vinovo, dove c’è l’ippodromo: quindi in realtà ippicamente parlando io sono nato a Vinovo… ».
La scintilla dunque si è accesa lì…
«Sì, ho lavorato in ippodromo fin da ragazzo e inevitabilmente si è accesa la passione per i cavalli, per le corse… Però il mio settore è stato sempre quello amministrativo, la gestione dell’ippodromo, non la scuderia. Poi mi sono laureato in ingegneria al Politecnico di Torino, ho fatto un master al Politecnico di Milano, ho iniziato a lavorare come manager in Fiat. Ma dopo un certo periodo, da ragazzo un po’ più cresciuto, diciamo… ho deciso di dedicarmi professionalmente al settore dell’ippica: mi sono trasferito a Roma dove dell’ippodromo di Capannelle sono diventato prima direttore e poi amministratore della società che gestisce l’impianto. Nel corso degli anni ho assunto altri ruoli come la presidenza di Federippodromi e altri incarichi nel consiglio di amministrazione di varie società, sempre nel campo dell’ippica e dei servizi collegati».
Federippodromi è il corrispondente di una federazione sportiva?
«No, è un’associazione di categoria che difende gli interessi degli ippodromi associati… un sindacato, diciamo».
E tutti gli ippodromi italiani sono rappresentati da Federippodromi?
«No, non tutti, ci sono anche altre associazioni: Federippodromi ne rappresenta solo una parte».
Gli ippodromi italiani hanno vissuto un’epoca di grande fulgore fino a una ventina d’anni fa…
«Sì, erano molto frequentati, c’era molta gente, c’era molto gioco, sull’ippica c’erano molte scommesse… ».
E poi è arrivato il momento di crisi. Dovuta a cosa, esattamente?
«La riforma degli anni Duemila che ha liberalizzato le scommesse, le slot-machine soprattutto. Allora c’è stato il declino del gioco ippico, che è molto costoso: nel senso che il ritorno per gli scommettitori è molto più basso di quanto accade nel caso degli altri giochi. Gli scommettitori si sono orientati soprattutto verso slot-machine e video lottery che per loro hanno un ritorno molto alto, prossimo al 90%, mentre l’ippica presenta un ritorno che è del 70%, a volte 60% nel caso delle scommesse più complicate, dunque è fortemente penalizzata».
Questa dunque la causa primaria della crisi dell’ippica?
«Il calo delle risorse a disposizione ha provocato tutti i problemi e le crisi in cui ci stiamo dibattendo da anni ormai, sia dal punto di vista del finanziamento degli ippodromi sia da quello del montepremi e di tutta l’organizzazione».
Quindi sembra di poter dire che nell’ippica esistano due grandi categorie distinte: gli appassionati del gioco e gli appassionati dei cavalli… È una visione corretta?
«Assolutamente sì, anzi, ne aggiungerei una terza, quella cioè di chi si appassiona a entrambe le cose. Tant’è vero che molti proprietari sono scommettitori che poi si sono convertiti per l’appunto al ruolo di proprietario appassionandosi a questa dimensione».
Un rapporto più diretto con la scuderia e con il cavallo…
«Sì, persone che acquistano cavalli per divertimento, perché è una cosa che regala grandi emozioni, perché dà visibilità… sono molteplici le ragioni. Un po’ quello che succede anche nell’equitazione, sebbene nello sport equestre sia più frequente la possibilità per il proprietario di essere anche l’utilizzatore del proprio cavallo, cosa che nell’ippica accade molto meno: o meglio, accade solo nel caso del gentleman rider o driver, ma sono casi molto rari… normalmente il cavallo viene dato a un allenatore professionista che poi lo fa montare a un fantino ugualmente professionista. Il proprietario è dunque nella maggioranza dei casi un appassionato che si diverte a veder correre il proprio cavallo».
Oltre al problema relativo alle scommesse di cui s’è già detto, ci sono altri elementi di criticità per i nostri ippodromi?
«Quello delle scommesse è il principale. Mancanza di soldi. Poi ci sono anche problemi di carattere organizzativo: nel 2013 è stato soppresso l’Unire, che era comunque un ente pubblico, e un ente pubblico che gestisce uno sport è già qualcosa di complicato rispetto a quanto accade quando il gestore è una federazione o una lega come nel caso del calcio o del basket… Ma con la soppressione dell’Unire siamo passati al ministero… e un ministero che gestisce un mondo come il nostro rappresenta davvero un problema in termini di burocrazia e lentezza… Se alla crisi economica aggiungiamo anche questa crisi organizzativa, beh… il panorama è completo».
Quindi cosa deve fare il mondo degli ippodromi per riguadagnare il terreno perduto?
«Gli ippodromi non possono fare molto in questo momento…. Questo è un settore altamente controllato e regolato dallo Stato. Nella maggior parte dei casi gli ippodromi sono di proprietà pubblica, organizzano e gestiscono le corse per conto del ministero, raccolgono le scommesse per conto dei monopoli, quindi sono esecutori del ministero e dei monopoli, e dunque non hanno molto margine di iniziativa. Il ministero fa il calendario, si corre quando dice il ministero, all’ora che dice il ministero, facendo le corse che dice il ministero, con il montepremi del ministero… L’attività degli ippodromi, la loro inventiva, la loro imprenditorialità sono molto limitate da questa organizzazione».
Ma non c’è la possibilità di proporre qualche cambiamento o almeno qualche correttivo circa l’impostazione di base di questo sistema?
«Certo. Nel corso degli anni ci sono state diverse proposte di legge, ce n’è anche una che giace in Parlamento presentata dall’attuale sottosegretario La Pietra, che ha la delega all’ippica nell’ambito del ministero dell’Agricoltura, per riorganizzare la governance del settore in senso più snello e privatistico… ».
È verosimile pensare agli ippodromi come spazi fisici aperti anche ad attività che non siano esclusivamente le corse ma comunque collegate ad altre dimensioni del rapporto tra uomo e cavallo?
«Sì, certo: in diversi ippodromi questa è una realtà. È quindi una cosa fattibile ma non risolutiva del problema di cui s’è detto. Gli ippodromi sono aree molto estese, Capannelle per esempio sono 137 ettari, e questa estensione richiede costi di gestione e manutenzione elevatissimi… Anche i servizi che devono essere garantiti costano tantissimo. Non bastano attività collaterali per arrivare a coprire spese di questa dimensione».
Però l’organizzazione di eventi e iniziative diverse dalle sole corse contribuirebbe a mettere in relazione l’ippodromo con il pubblico in modo meno settoriale, forse…
«Sicuramente sì, ed è infatti per questo che molti ippodromi si impegnano anche in questo senso: attirare pubblico diverso contribuisce a far conoscere l’ippodromo e quindi ad aumentarne la frequentazione… Tutto questo però, e lo ripeto, non basta per risollevare le sorti dell’ippica. Ci vuole altro: ci vogliono investimenti, miglioramento delle strutture, interventi da parte dei proprietari degli ippodromi che sono i comuni, ovviamente anche di noi gestori che dobbiamo investire seguendo il proprietario, bisogna rinnovare l’intero sistema scommesse, riorganizzare la governance del settore… ».
Ma cosa si intende precisamente quando si parla di rinnovamento delle scommesse?
«Intanto diciamo non si fa peccato parlando di scommesse, nonostante in Italia sia un tema sempre molto delicato. Un tema che interessa molto lo Stato, dal momento che se ne ricavano 15 miliardi di tasse all’anno… Certo, le scommesse vanno controllate, regolate, bisogna mettere in pratica tutte le norme anti ludopatia, questo è quasi superfluo da dire. Una soluzione molto interessante che noi di Federippodromi abbiamo proposto diverse volte sarebbe quella di rendere gli ippodromi centri autorizzati a raccogliere tutti i tipi di gioco e utilizzare una parte della tassa prodotta da questo volume di gioco per finanziare l’ippica, e quindi il lavoro nell’ippica, l’allenamento, l’allevamento, le scuderie, le strutture… Cosa che accade per esempio negli Stati Uniti: lì l’ippica si è risollevata quando è stato permesso agli ippodromi di diventare casinò. Corse e casinò, insomma».
L’ippodromo Snai San Siro a Milano è molto attivo sotto il profilo delle attività extra ippica: potrebbe essere una specie di punto di riferimento per gli ippodromi italiani?
«San Siro rappresenta senza alcun dubbio un modello. Anche noi a Capannelle siamo molto attivi sotto il profilo delle iniziative collaterali… Però a Milano lo possono fare in modo più professionale e strutturato e profondo sostanzialmente per un motivo: l’ippodromo è di loro proprietà. Quindi è chiaro che se c’è la necessità di investire su qualcosa lo possono fare, è casa loro. Quando l’ippodromo è tuo hai meno vincoli di quando la proprietà è comunale, come nel caso di Capannelle e di molti altri. Poi chiaramente Snai ha una forza economica non paragonabile a quella di alcun altro ippodromo italiano. Detto ciò, rimane il fatto che San Siro costituisce un modello assolutamente valido: ma ripeto, l’attività collaterale non è sufficiente per rilanciare l’ippica. Bisogna lavorare molto sulle scommesse. Questo è il punto».