Bologna, Agosto 2016 – Montare a cavallo non è la cosa più importante della vita, ma se la vita è montare a cavallo smettere di farlo potrebbe anche essere una tragedia. Soprattutto se costretti contro la propria volontà. Soprattutto se costretti da un medico che dice che continuando a montare a cavallo si rischia di morire. E allora l’interrogativo – molto letterario, in verità – sorge spontaneo: vivere per morire o morire per vivere? Nick Skelton nel 2001 decide di morire per vivere, cioè decide di smettere di montare a cavallo per non rischiare di dover abbandonare questa terra anzitempo. In quel momento ha 43 anni (è nato il 30 dicembre 1957), detiene il record mondiale di presenze in prima squadra (137) e vanta un curriculum che conta la partecipazione a tre Olimpiadi, cinque Campionati del Mondo, otto Campionati d’Europa, sedici finali di Coppa del Mondo per un totale di dodici medaglie: insomma, uno dei più grandi campioni della storia dello sport equestre mondiale.
Ma essere uno dei più grandi campioni della storia dello sport equestre mondiale non serve a scongiurare gli attacchi del destino malefico. Un giorno di settembre del 2000 Nick Skelton è in gara a Park Gate, nel Cheshire, in Inghilterra. In quel momento, cioè nel momento in cui il destino si materializza malefico, Skelton sta montando Lalique. Lalique si ferma davanti a un ostacolo: Skelton sbilanciato cade in avanti. Una caduta banale, una caduta come tante, una caduta molto meno impressionante di tante. Ma l’esito è tremendo: una vertebra superiore del collo, la cosiddetta “C1”, quella che si trova alla base del cranio, si frattura in due punti. Sembra l’inizio della fine. Skelton deve indossare per mesi un collare metallico come unica possibilità di risanamento della frattura. La speranza che tutto si risolva c’è ma è flebile: sembra già un miracolo che Nick non abbia riportato alcun danno alla funzionalità del corpo. All’inizio del 2001 nuove analisi, ma il responso è demoralizzante: Skelton non potrà più montare a cavallo perché un’altra caduta potrebbe mettere a rischio la sua stessa vita. Dopo alcuni giorni in cui il mondo per lui smette di girare nella solita direzione, Skelton comunica ufficialmente alla stampa il suo ritiro dall’attività agonistica: «Non posso rischiare così tanto», ammette distrutto, «per me e per la mia famiglia». Per la Gran Bretagna, al di là del dramma umano, è una catastrofe sportiva: sempre alla fine del 2000 John Whitaker (l’altra divinità del salto ostacoli britannico) era stato colpito a Stoccolma da un ictus e in quel momento non si sapeva se e quando avrebbe potuto riprendere a montare. Sembrava una maledizione.
Nick Skelton trascorre così tutto il 2001 – un anno intero – cercando di dare un senso alla sua stessa esistenza: viene coinvolto con incarichi tecnici dalla federazione britannica, ma la cosa non sembra fare per lui. Lui si sente ancora un cavaliere, stare a piedi a guardare gli altri gli sembra un’ingiustizia troppo grande. Non si dà pace: e così all’inizio del 2002 si sottopone a nuovi accertamenti, solo per togliersi lo scrupolo e certo senza grandi aspettative. Invece questa volta il responso è stupefacente: le cose sembrano essersi sistemate per il meglio, la frattura non è più a rischio, i medici danno il via libera al ritorno in sella. Sembra un miracolo. Skelton non se lo fa ripetere due volte: ritrova un gruppo di cavalli messigli a disposizione dai suoi proprietari ‘storici’, i signori Hales, e si ributta nella mischia. Con raziocinio, però: nella seconda metà del 2002 partecipa a concorsi di livello medio-basso e quasi tutti in Inghilterra, tranne una puntata in Portogallo e in Belgio. Il 2003 è l’anno del suo ritorno alla grande: a Roma in maggio scende in campo nella sua prima Coppa delle Nazioni dopo l’incidente (Gran Bretagna al 3° posto), e sempre in Piazza di Siena è 3° in Gran Premio Roma. E sapete dove ottiene la prima vittoria in Coppa delle Nazioni dopo l’incidente? A Hickstead, in Inghilterra, dunque davanti al pubblico di casa. Miglior teatro per la celebrazione di un grande campione non poteva esistere: e Skelton di lì a poco avrebbe fatto parte della quadra impegnata nel Campionato d’Europa di Donaueschingen.
E pensare che Nick Skelton sarebbe voluto diventare un jockey. Il suo idolo fin dalla più tenera età infatti era il mitico Lester Piggott, che Nick cercava di emulare galoppando ventre a terra in giro per la campagna in sella al pony che i suoi genitori gli avevano regalato al compimento dei tre anni (suoi, non del pony…). Ma ben presto il piccolo Nick deve accantonare il sogno, quando si rende conto che altezza e corporatura non lo avrebbero certo potuto condurre sulle piste di galoppo. Così, incoraggiato anche dagli ottimi risultati che ottiene nelle gare di salto ostacoli risevate agli juniores, Skelton interrompe gli studi e si trasferisce a Rio Grande, la scuderia di Ted Edgar, trainer di gran livello anche se persona dal carattere molto particolare; tra lui e Nick non sono sempre rose e fiori: «Avevamo i nostri alti e bassi», spiega Skelton. «Ted ha un carattere difficile ed è una persona molto dura per la quale lavorare. Molto spesso mi veniva voglia di piantare tutto e scappare a casa dai miei genitori dicendo che dagli Edgar non sarei più tornato. Ma mio padre mi ci avrebbe riportato subito… ». Nick rimane con gli Edgar dai quindici ai ventisette anni, un arco di tempo durante il quale fioccano prestigiose vittorie internazionali: la prima, quella che fa conoscere Skelton al grande pubblico (peraltro già campione d’Europa juniores individuale nel ’75), è datata 1978 e teatro dell’impresa è il padiglione indoor di Olympia, a Londra. Di fronte a un pubblico trepidante il giovane Skelton stabilisce il record (per allora) di elevazione, saltando due metri e trentadue centimetri in sella a Lastic, cavallo che avrebbe dovuto essere montato da Ted Edgar ma che il trainer lascia al suo allievo a causa di una frattura alla gamba che, ovviamente, gli impedisce di gareggiare.
Nel 1985 Nick si sente ormai maturo per il grande balzo: lascia Ted Edgar e si stabilisce nel villaggio di Lowsonford, nel Warwickshire, non lontano dalla scuderia del suo maestro. Comincia a montare il cavallo che lascerà un segno indelebile nella sua storia di cavaliere. Ogni cavaliere di alto livello ha legato più o meno indissolubilmente la propria immagine a un cavallo in particolare. Per Skelton questo cavallo è stato Apollo: castrone baio olandese nato nel ’75, figlio di Erdball, forza e potenza straordinarie. «All’inizio non mi piacque molto montarlo», racconta Nick, «perché era davvero troppo diverso dai cavalli che avevo montato fino a quel momento: soggetti che potevo dominare, con i quali potevo avere la situazione sempre sotto controllo. Con Apollo era diverso: era lui a dominare, era lui a controllare la situazione! Ma alla fine raggiungemmo un’ottima intesa e lui si dimostrò un grandissimo vincitore senza alcuna preferenza per il tipo di gara: a tempo, a barrage, Derby, Gran Premi, Coppe delle Nazioni, potenze, lui vinceva tutto». Proprio con Apollo Skelton conquista la medaglia di bronzo individuale nel Campionato del Mondo di Aquisgrana nell’86, una gara che tuttavia Nick ricorda ancora oggi con un certo disappunto per non aver raggiunto l’oro a causa di qualche contrattempo nella finale con lo scambio dei cavalli: «Quando fu il mio turno con Mister T (il cavallo di Gail Greenough, l’amazzone canadese che poi avrebbe vinto il titolo, n.d.r.), il cavallo era piuttosto ardente e infastidito», racconta Nick. «Era stato appena montato da Pierre Durand e lo sentii decisamente nervoso. Così decisi di montarlo con grande tranquillità, lasciandogli fare le cose come venivano a lui, e fu un errore. Avevo montato gli altri cavalli con forza e decisione, li avevo davvero costretti a saltare, e avrei dovuto fare la stessa cosa anche con Mister T. Invece sbagliai, buttando via la medaglia d’oro».
Fino all’aprile del 1995 Nick Skelton faceva parte di un gruppo molto particolare: quello dei fuoriclasse (veri fuoriclasse) che non avevano mai colto un successo individuale pari alla loro grandezza di campioni. Due nomi su tutti: Eddie Macken e Michel Robert. Tante affermazioni di squadra, tanti successi in Gran Premi e Coppe delle Nazioni, tante medaglie individuali d’argento e di bronzo, ma mai quell’agognato oro individuale. Skelton ha abbandonato questa prestigiosa riunione per l’appunto nel 1995 vincendo la finale di Coppa del Mondo in sella a Dollar Girl, cavalla in seguito trasferita in Messico come fattrice nel favoloso allevamento del miliardario Alfonso Romo. Dollar Girl è una femmina baia hannoverana, nata nell’80, figlia di Dynamo. Nel 1992 era di proprietà dello svizzero Jo Haller che per anni l’aveva fatta montare al suo connazionale Thomas Fuchs con il quale aveva ottenuto ottimi risultati ad altissimo livello. Al principio del ’92, tuttavia, i rapporti tra Haller e Fuchs si interruppero e il proprietario elvetico manifestò l’intenzione di affidare la figlia di Dynamo a John Whitaker, consapevole del fatto che quest’ultimo sarebbe rimasto altrimenti sprovvisto di un cavallo con il quale affrontare le Olimpiadi di Barcellona stante il rifiuto da parte dei coniugi Bradley di dare la disponibilità del loro Milton (al tempo il numero uno di Whitaker) per i Giochi, in omaggio a un’antico voto fatto dalla loro figlia Caroline (morta tragicamente nell’83) secondo cui nessun cavallo di sua proprietà avrebbe mai partecipato a un’Olimpiade, in seguito a duri contrasti con la federazione britannica. Ma l’idea di vedere a Barcellona John Whitaker, che a quel tempo si identificava in pieno con l’immagine di Milton, in sella a un cavallo diverso dal loro fuoriclasse grigio indusse i Bradley a cambiare opinione e a concedere il tanto sospirato assenso alla spedizione olimpica. Così Dollar Girl venne ‘dirottata’ su Nick Skelton, che con lei iniziò subito alla grande conquistando il secondo posto nel Gran Premio più importante del mondo, quello dello Csio di Aquisgrana (da lui vinto in passato per ben tre volte, e poi riconquistato per la quarta proprio con Big Star nel 2013: record assoluto condiviso con il solo Piero d’Inzeo). Le Olimpiadi in effetti andarono piuttosto maluccio, ma poi il binomio ingranò una serie di successi straordinari tra i quali per l’appunto la vittoria della finale di Coppa del Mondo nel ’95.
Quella di Goteborg nel 1995 rimane la prima e unica vittoria individuale di Nick Skelton in un campionato internazionale prima della favolosa conquista olimpica di Rio de Janeiro 2016. In mezzo tuttavia una grandiosa serie di successi – temporaneamente interrotta dall’infortunio gravissimo di cui s’è detto – legata a nomi di cavalli indimenticabili: Arko, Carlo (lo stesso ora sotto la sella di Sergio Alvarez Moya, ugualmente in gara a Rio), Russel, Hopes Are High, Showtime, Sublime, Tinka’s Boy (prima che arrivasse a Markus Fuchs), solo per dirne alcuni dei più significativi… Gran Premi, Coppe delle Nazioni, medaglie internazionali… Mai l’oro individuale, però: tante volte accarezzato e poi svanito, corteggiato senza mai che gli si concedesse. Valeva la pena aspettare? Certo: la vittoria di oggi, la vittoria di Rio de Janeiro è la vittoria delle vittorie, l’oro degli ori. Non sarebbe stata la stessa cosa dieci o venti anni fa il gradino più alto del podio olimpico: no. Oggi ha un significato ben diverso per Nick Skelton essere salito lassù, su quel gradino: perché lo ha fatto a 58 anni dopo aver vissuto tutto quello cha ha vissuto. Vincere dopo aver vissuto è diverso dal vincere prima di vivere.
19 agosto 2016