Martedì 25 marzo 2014 – Stiamo andando a Bolzano. In macchina ci sono solo colori e pensieri belli: anche se Enrico d’Inzeo non si dovesse rivelare una fonte di notizie eclatanti, questo è l’inizio della raccolta dei pezzi di quello che sarà. Quindi sarà quel che sarà, sarà bene. Veramente Enrico d’Inzeo aveva già rivelato una cosa che a Umberto era sembrata un’ottima ragione per andare a trovarlo: da piccolo ha vissuto a casa dello zio Costante d’Inzeo per alcuni anni, naturalmente insieme a Raimondo e a Piero… ! Cielo! Sicuramente avrà tante cose da dire su quella parte della loro vita di cui non sappiamo nulla, su com’erano da ragazzini, su come si stava in casa, sui rapporti che c’erano tra i due fratelli, e tra loro e i genitori, e tra i due genitori e… insomma: chissà quante cose avrebbe saputo e potuto raccontarci. In realtà pensando alla telefonata del giorno prima non c’era da essere molto entusiasti: Enrico d’Inzeo aveva infatti consigliato a Umberto di parlare con Gian Carlo… «Sa, Piero aveva un figlio, Gian Carlo… Potrebbe sentire lui… ». Come se Umberto non fosse in costante contatto con Gian Carlo, il quale appunto aveva fornito i riferimenti per contattare Enrico. Insomma… non il massimo come premessa all’intervista. Forse stavamo per fare un giro per niente.
Comunque. Alle tre e un quarto siamo sotto casa sua e poco dopo suoniamo il campanello.
L’appartamento è quello di una persona anziana che vive da sola immersa nel tempo di un tempo. Piccolo, in ordine, pavimento e arredamento anni ’70, centrini bianchi fatti all’uncinetto sotto ogni soprammobile. Li noto perché ci sono sempre nelle case di chi ha l’età di un nonno: danno proprio il senso delle cose di una volta. Di quell’attenzione e di quella cura di quando non c’erano un sacco di cose, come ad esempio l’Ikea. Di quando le cose duravano tutta la vita. Comunque. Tutto in ordine. Tutto tranquillo. Tutto a posto. Fa tenerezza perché questo signore è anziano, parla un po’ sottovoce, è un po’ in imbarazzo, è piccolo, cammina con un po’ di fatica. Per prima cosa ci dice che ha preparato il tavolo per l’intervista: in effetti è libero da ogni cosa a parte una tovaglia – che guarda caso sembra proprio come quelle di una volta…
Io mi siedo al tavolo un po’ in disparte mentre Enrico si siede di fronte a Umberto sul più rigido dei due divani, per non sprofondare nell’altro, da cui farebbe fatica a rialzarsi (dice). In realtà Umberto ha bisogno di stare vicino a lui per il microfono, ma mi pare che nessuno dei due sia molto comodo: Enrico è un po’ schiacciato da sé stesso nell’angolo del divano, Umberto è seduto un po’ sul bordo, girato verso di lui, di fianco. Lo sovrasta un po’, sembra che abbia più luce del signor d’Inzeo… sarà forse per i colori che indossa (giallo e azzurro e bianco), fatto sta che fa sembrare un po’ più grigio e anziano il piccolo Enrico d’Inzeo. Nonostante la ‘piccolezza’ e i colori un po’ smorti, il terzo d’Inzeo, quello di cui non si era mai sentito parlare, sembra proprio… un d’Inzeo. In qualche modo assomiglia ai suoi due più noti cugini. Io non li ho mai visti di persona, li ho visti solo in foto. Ma non so perché, mi sembra che ci sia una somiglianza (che poi Umberto mi confermerà). E poi: io non so come si muovevano i fratelli d’Inzeo quando parlavano, ma qualcosa mi fa pensare che si muovessero come Enrico, che ha le braccia molto lunghe se paragonate al resto del corpo e che quando parla le muove così tanto da scontrarsi più di una volta con il registratorino di Umberto. E ogni volta non dice qualcosa come: «Oh che sbadato: mi scusi… !»: no! Dice: «Stia un po’ più un là con questo aggeggio!», o cose del genere… Al gesticolare ci teneva proprio, oppure sapeva di non essere capace di farne a meno. A un certo punto gli ho guardato le mani e ho ripensato a quella cosa che aveva scritto Umberto in occasione della morte di Piero d’Inzeo: “Perfino le mani, quelle mani che sapevano fare cose impossibili per i comuni mortali, quelle mani erano diverse eppure ottenevano risultati fondamentalmente uguali. Quelle di Raimondo tutto sommato erano normali, nel loro aspetto e nella loro costruzione. Quelle di Piero no: le mani di Piero erano decisamente poco normali. Sembravano quasi uno strumento anomalo concesso appositamente alla sola persona al mondo che avrebbe potuto utilizzarlo al meglio. Intanto la distanza che intercorreva tra il polso e le nocche delle dita: enormemente superiore rispetto a quella della mano di qualunque altro essere umano. Poi le dita: che prendevano una direzione diversa rispetto a quella della mano stessa, cioè tendevano verso l’esterno, tutte verso il mignolo, e che raramente stavano distese, ma che piuttosto si rilassavano stando con i polpastrelli rivolti verso il palmo. Come se la loro funzione principale non fosse quella di… per esempio impugnare una penna, o stringere un’altra mano, o accarezzare qualcuno, o trasportare qualcosa… no, come se in realtà la loro funzione principale, originaria, costituiva fosse per l’appunto quella di unirsi a un paio di redini. Forse il Piero d’Inzeo bambino avrà avuto chiaro l’uso delle proprie mani solo dopo aver impugnato le redini la prima volta, quasi come segno di una predestinazione divina”.
Pensavo a questa cosa qui. Ovviamente non so se le mani di Enrico d’Inzeo assomiglino alle mani dei suoi cugini, ma sono comunque delle mani piuttosto grandi e forse anche con le dita un po’ storte. Chissà.
Durante l’intervista non succedono cose speciali, salvo per il fatto che Umberto deve continuamente cercare di riportare ‘sulla retta via’ il povero Enrico, al quale verrebbe naturale – nel raccontare di quei tempi antichi di cui fa fatica a ricordare date e dettagli – parlare di sé stesso, di quello che lui faceva, di come lui montava, di quello che era per lui l’esperienza di vivere da ragazzino lontano da casa. Ma a noi interessa la storia dei suoi cugini, al limite di suo zio. Veramente a me da un po’ di tempo interesserebbe sapere qualcosa in più della loro mamma. Del papà Costante tutti (o almeno molte persone di ‘cavalli’) conosciamo l’esistenza, sappiamo che è anche grazie a lui se i due fratelli sono diventati quello che sono diventati, ma… ci doveva pur essere una mamma…
Qualche tempo fa ho guardato per qualche minuto una trasmissione che ClassHorseTV ha dedicato a Piero d’Inzeo, poco dopo la sua morte. Si vedevano i due fratelli sul podio olimpico e ricordo di aver provato un’emozione fortissima: improvvisamente ho avuto un senso di profonda empatia verso la mamma di Piero e di Raimondo. Mi sono sentita, più che immaginata, come mi sarei potuta sentire se fossero stati i miei, di figli, sul podio olimpico. E ho vissuto per qualche secondo l’emozione gigantesca che una madre potrebbe provare vedendo i suoi due figli, insieme, sui due gradini più alti di un podio olimpico. Sarà perché ho due bambini vicini d’età che io chiamo ‘i fratellini’ e che vorrei vedere sempre insieme. Sarà perché sono una mamma e basta. Fatto sta che credo che essere mamma di due fratelli che insieme vincono le Olimpiadi sia una cosa che non so descrivere. Naturalmente avevo le lacrime agli occhi, il cuore ristretto e il mondo fermato attorno. Naturalmente. E naturalmente non è stato possibile non avere le lacrime agli occhi, il cuore ristretto e un gran silenzio attorno quando Enrico d’Inzeo è arrivato al punto in cui Costante d’Inzeo è morto. Un incidente stradale. Il ricordo di questo episodio di morte lo riporta immediatamente al presente. Parlando del passato si era davvero animato e aveva più volte sorriso, quasi riso. Ma la morte e la tristezza sono nell’aria di questo appartamento. Purtroppo infatti una decina di anni fa il figlio di Enrico d’Inzeo è morto. Non abbiamo avuto il coraggio di chiedere come sia morto questo ragazzo. Ma possiamo vedere nelle parole e nei gesti e negli occhi di Enrico, e in tutta la sua piccola e ingrigita persona, la sua profonda infinita e mai finita tristezza. Penso ora che le due sensazioni siano esattamente opposte. Il contrario dell’emozione di vedere i propri figli sui podi olimpici dev’essere necessariamente il vedere il proprio unico figlio morire. Da questa tristezza si fa un po’ fatica a portarlo via, a ritornare sulla strada di prima, quella del racconto, dei ricordi. Umberto gli lascia un po’ di tempo, gli lascia raccontare un po’, poi con calma lo riporta dove vuole lui. Io non ne sarei stata capace.
Il pomeriggio passa in fretta, Enrico d’Inzeo non ci ha detto molto di sua zia (cosa che comunque sembra per ora interessare solo a me!), ha però raccontato in particolare due aneddoti che da soli sarebbero valsi il viaggio (e che ovviamente si leggeranno nel libro) e alla fine siamo pronti per ripartire… Ma dopo averci svelato che si era munito di un appuntito ombrello nel caso in cui ci fossimo rivelati due impostori malintenzionati, sembrava quasi che Enrico non volesse più lasciarci andar via. Con fatica e con emozione ha iniziato a farci vedere fotografie, libri e documenti vari. Le foto del figlio ovviamente. E poi una cartelletta con dentro la documentazione relativa a una riunione di tutta la famiglia d’Inzeo (sono in tantissimi!) organizzata nel 2010: testi, immagini, video – tutte cose utili e interessanti. Ma alla fine siamo pronti e con il gusto dell’anisetta in bocca (un’anisetta che si è materializzata quasi come fosse uscita direttamente da un ricordo di cose di un tempo), ci siamo fatti aprire la porta per uscire…. Enrico ci ha accompagnati fino a dentro l’ascensore e sembrava volesse venire via con noi, oppure che noi restassimo lì per sempre… Ma noi ovviamente dovevamo ripartire. In ascensore non si riusciva a dire niente, lo spazio era ristretto. Io sorridevo, Umberto per niente. A lui più che a me era rimasta la visione del vecchietto solo e ingrigito, con una moglie malata e un figlio mancato, e per sempre mancante. E lui stava già ricollegando questa tragedia alle morti premature di altri figli della famiglia d’Inzeo. Io invece a quel punto ero più sulla parte in cui Enrico d’Inzeo si era rianimato sembrando felice di essere in compagnia e di aver potuto raccontare e rivivere le cose belle di quel tempo.
25 febbraio 2015