Pisa, marzo 2013 – Il test è stato progettato per il Dipartimento di Scienze Veterinarie dell’Università di Pisa da Paolo Baragli e Claudio Sighieri, medici veterinari, e messo in pratica con l’aiuto di Paola Lovrovich della Italian Horse Protection: 24 cavalli divisi in due gruppi, uno per uno sono stati messi davanti a tre secchi sotto i quali era nascosta una carota.
Il primo gruppo doveva trovare la carota senza nessuna aiuto, mentre al secondo era permesso vedere l’uomo che arrivava, nascondeva la carota e se ne andava via.
Risultato? I cavalli che avevano visto nascondere la carota la trovavano al primo colpo, muovendosi con calma mentre quelli che non avevano avuto l’aiutino dei ricercatori hanno adottato una strategia diversa, ugualmente redditizia e anche più veloce: ribaltavano tutti i secchi, tanto dopo i primi tentativi avevano capito che la carota c’era sempre, bastava solo trovarla.
“Nel corso della prova i cavalli hanno dimostrato di saper cambiare la propria strategia di ricerca per raggiungere il loro obiettivo, cioè la carota, nel più breve tempo possibile, a prescindere anche dagli indizi forniti dall’uomo” spiega Baragli, che continua: “I risultati di questo test dimostrano che i cavalli sono in grado di comprendere e di usare il significato cognitivo delle indicazioni umane per compiere le proprie scelte, ma sono anche in grado di cambiare la propria strategia nel momento in cui si rendono conto che l’informazione ottenuta non è fondamentale per raggiungere l’obiettivo, soprattutto se può essere conquistato più velocemente in altro modo. E tutto ciò avviene in un arco di tempo, cioè la durata dei test, molto breve, a indicare il fatto che i cavalli possiedono sofisticate capacità di trovare rapidamente soluzioni diverse a uno stesso problema, basandosi sull’esperienza fatta”.
E sin qui è tutto perfetto: ci piace che qualcuno abbia avuto l’idea di mettere un punto fermamente scientifico nelle secolari diatribe tra chi sostiene l’intelligenza del cavallo e chi invece ne spergiura l’ottusità.
L’unica cosa che ci lascia perplessi è che il risultato di questa ricerca possa stupire qualcuno: ma probabilmente può rimanere sorpreso solo chi non è mai entrato in scuderia con una carota in tasca, e non ha quindi mai potuto apprezzare il fiuto di un equino capace di scandagliare gli anfratti più nascosti di qualsiasi puzzolentissimo Barbour, la sua capacità persuasiva nel farsi consegnare l’ortaggio a furia di sospironi sfrogiati dal naso e anche una notevole consapevolezza sociale che si palesa nella costante gratificazione del portatore di carote a mezzo di annusatine affettuose, morbidi pizzichi dei labbroni e occhioni stellanti con su scritto “Ancora, grazie”.
E questo solo per rimanere in tema carote, che ci piacerebbe raccontare a chi non frequenta i cavalli anche più banali esperienze che capitano a chiunque abbia passato solo un pochino di tempo con loro.
Ma evitiamo di raccontare casi personali, troppo poco significativi perché possano convincere qualcuno: preferiamo riportare il parere di Federico Tesio (1869-1954), l’allevatore di Purosangue Inglesi più celebre della storia del turf italico (suoi Nearco, Cavaliere D’Arpino e Ribot) e che sicuramente non poteva essere tacciato di eccessivo sentimentalismo nei confronti di nessun cavallo.
Tesio nel suo “Il Purosangue, animale da esperimento” fa notare quanto sia complicato e poco naturale insegnare ad un cavallo i movimenti di Alta Scuola: riporta integralmente una delle 230 pagine di un trattato sulla disciplina, dove si introduce il lavoro di preparazione alla jambette. Una lista di minuziosi, pedanti esercizi ed operazioni finalizzati ad ottenere un preciso movimento, che solo a leggerla ci mette in confusione.
Eppure i cavalli lo capiscono, riescono ad interpretare tutte le istruzioni impartite dalla voce, dalla frusta, dagli altri aiuti dell’addestratore arrivando a fare quella benedetta jambette e molto, molto altro: e questa Tesio la interpreta come una dimostrazione di intelligenza, perché “Considerate …quale somma di lavoro intellettuale deve aver compiuto la bestia per interpretare le sevizie dell’uomo e soddisfarne i desideri complicatissimi. Se un istruttore militare italiano volesse insegnare ad un esquimese (che non conosce la nostra lingua) il passo di parata usando solo il sistema del Traité de haute école, non so se l’esquimese farebbe molto più presto del puledro ad imparare il giuoco…ma è anche certo che il cavallo conosce assai meglio la psiche dell’uomo che non l’uomo la psiche del cavallo. Il cavallo interpreta il suono della parola dell’uomo, interpreta il significato di alcuni motivi musicali (sveglia, buttasella, galoppo ecc.), interpreta le punizioni e le carezze, interperta i più leggeri movimenti della mano di chi lo guida, e giudica assai bene la psiche del suo domatore. Mentre l’uomo non studia, non intepreta e quindi non conosce quasi mai la psiche del suo cavallo”.
Bene, la ricerca di Baragli & c. è stata pubblicata sulla Applied Animal Behaviour Science, rivista internazionale che tratta dei comportamenti animali, quindi qualcuno che studia c’è.
Ma invitiamo chiunque non conosca i cavalli a darsi l’occasione di frequentarli e fare esperimenti dal vero con loro: vi stupiranno ancora, vi stupiranno ogn giorno e non solo con il loro QI o la loro memoria ma anche con la loro sensibilità e capacità di leggervi dentro (cosa diverse dall’intelligenza, ma non meno gradevoli e importanti) e con la ricchezza di emozioni che vi potranno regalare.
25 marzo 2015