Bologna, dicembre 2015 – Henk Nooren, olandese, 61 anni magnificamente portati, è il nuovo responsabile tecnico della squadra azzurra di salto ostacoli seniores. Il trainer probabilmente più vincente del mondo – insieme allo statunitense George Morris – torna dunque alla guida dell’Italia dopo il quadriennio 1992-1996. Quella lanciata dalla Fise e dallo stesso Nooren è una bella sfida, una di quelle sfide… all’ultimo sangue: nel senso che le aspettative su di un personaggio del suo calibro sono tante e ‘pesanti’, soprattutto per un salto ostacoli come quello attuale azzurro che certamente non si può dire stia attraversando un buon momento. Successi di Emanuele Gaudiano a parte (cavaliere che comunque con la squadra azzurra ha un rapporto abbastanza particolare… ), motivi per essere felici non ne abbiamo molti dopo una stagione che ci ha visto fallire la qualifica per le Olimpiadi e portare a termine un circuito di Coppa delle Nazioni con il fiato grosso, eufemisticamente parlando. Riuscirà Henk Nooren a fare ciò che normalmente gli è riuscito ovunque? Lo dirà il tempo. Intanto però potrebbe risultare davvero molto interessante leggere (o meglio: rileggere) un’intervista che il tecnico olandese aveva rilasciato al nostro Cavallo Sport – al tempo un allegato a Cavallo Magazine – nel 2012, al tempo in cui era ancora il c.t. della Francia. Un’intervista molto utile per capire e approfondire la conoscenza di un personaggio davvero unico nel panorama internazionale.
di Umberto Martuscelli
È come re Mida: quello che tocca diventa oro. Ma nel suo caso il magico dono non è stato regalato da Dioniso: no, lui ha fatto tutto da solo, costruendo con le sue stesse mani giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno una carriera che lo ha reso il miglior allenatore del mondo. E se Mida alla fine ha dovuto implorare Dioniso di farlo tornare ‘normale’ poiché altrimenti impossibilitato a nutrirsi, Henk Nooren normale non lo sarà mai più: nessun Dioniso potrà mai cancellare una competenza, una professionalità, un carisma e una cultura che fanno del trainer olandese un caso senza eguali nella storia del salto ostacoli internazionale degli ultimi trent’anni. Senza eguali non tanto nei risultati (che pure sono notevoli), quanto piuttosto nella considerazione che gli viene riservata universalmente: chi lo ha avuto lo rimpiange, chi non l’ha avuto lo desidera, chi ha un problema è convinto che solo lui potrebbe risolverlo, chi fa il suo mestiere lo considera un punto di riferimento, chi non lo ama in realtà lo invidia.
Lei è consapevole di essere considerato il migliore?
«Beh, diciamo che sono consapevole di riuscire a fare abbastanza bene il mio lavoro, ecco. So anche che non ci si deve fermare mai, che bisogna sempre essere disponibili, ma veramente disponibili, a valutare, riflettere considerare… Non esiste il tempo per il riposo, da questo punto di vista… Quindi non esiste che io mi fermi per dire: ah, io sono bravo nel fare il mio lavoro. Fermarsi per fare questa riflessione è già una perdita di tempo, è già un colpevole ritardo».
La base di tutto questo è la sua inarrestabile volontà di migliorare, di imparare…
«Sì, assolutamente. Io ho sempre pensato che nel momento in cui si smette di essere curiosi e desiderosi di apprendere, allora si ferma tutto, si smette di migliorare. E si viene superati in un attimo. Io spero di diventare vecchio senza mai perdere la voglia di esplorare, di conoscere».
Ma dovendolo dire in due parole, quale pensa sia la principale ragione del suo successo come trainer?
«Premesso che anche il miglior cavaliere del mondo ha bisogno di qualcuno che da terra lo osservi con sguardo critico, credo che più di tutto nel mio caso si debba parlare della capacità, ma più ancora della volontà di considerare anche il più piccolo dettaglio come funzionale alla visione di insieme. Cioè, il dettaglio è ovviamente importante, ma bisogna considerare che più importante ancora è il tutto: quindi bisogna saper valutare e capire quando la cura del dettaglio è effettivamente funzionale a questo tutto, o se invece diventa qualcosa di fine a se stesso».
Questa… prospettiva l’aveva anche da cavaliere?
«La visione d’insieme forse sì, ma se vado con la memoria a quando ero cavaliere mi rendo conto che anche io avrei avuto bisogno di qualcuno a terra, qualcuno di forte, di duro, che mi aiutasse soprattutto nel lavoro a casa. Non l’ho avuto, ne ho sentito la mancanza, ma la visione d’insieme sì, quella l’ho sempre avuta».
Quindi se oggi Henk Nooren fosse ancora un cavaliere avrebbe bisogno di un Henk Nooren a terra?
«Non tutti i cavalieri effettivamente si rendono conto di aver bisogno di questo, ma il punto è che io non sono lì per una singola persona: io sono lì per una squadra. Alcuni hanno bisogno di poco, altri hanno bisogno di molto di più. Un esempio: Marcus Ehning non ha bisogno di molto aiuto tecnico. Magari ogni tanto un consiglio. Quello di cui lui ha bisogno è di parlare, discutere delle cose: la cosa interessante di quando si trovano personaggi del genere a quel livello è che le cose vengono fuori naturalmente con la conversazione, con la discussione, con il confronto. Allora non c’è più un tecnico che dice al cavaliere quello che lui deve fare: si stabilisce piuttosto un rapporto di scambio, di collaborazione. Continuando con l’esempio, Marcus ha bisogno più che altro di aiuto mentale, psicologico, che altro. Con lui molto spesso basta che io ci sia, senza dover spendere molte parole».
Lei fa spesso riferimento agli aspetti psicologici dell’attività dell’atleta.
«Credo di essere stato uno dei primi a chiedere la collaborazione di uno psicologo nel lavoro su una squadra. In passato, all’inizio della mia carriera come trainer, ho seguito personalmente alcuni seminari circa il rapporto tra psicologia e sport e da allora mi sono convinto che spesso la presenza di uno psicologo può essere determinante per le sorti di una prestazione sportiva. Da allora ogni volta che lo ritengo necessario io suggerisco ai cavalieri di avvalersi di un aiuto specialistico. Credo che possa incidere fino al 30% sull’esito di una prestazione agonistica».
C’è stato un momento preciso in cui si è reso conto di tutto questo?
«Non un momento preciso, ma un insieme di considerazioni. Venticinque, trent’anni fa si vedeva chiaramente che molto spesso, veramente molto spesso, i favoriti di una grande gara, di un campionato internazionale, alla fine non vincevano. Quelli che tecnicamente e agonisticamente erano considerati i migliori. Parlo di sport in generale. Oggi la situazione è completamente rovesciata: molto raramente i favoriti non vincono. Se la proporzione dei valori tecnici oggi come allora non è cambiata tra atleta e competizione, allora ci deve essere dell’altro, no? Quindi, io so di essere abbastanza utile a un cavaliere sotto il profilo strettamente tecnico, ma se capisco che ci possono essere dei problemi di natura psicologica allora consiglio immediatamente di avvalersi di un supporto specifico».
Adesso lei è il trainer della Francia, ma anche di diversi cavalieri stranieri.
«Sì, ma il lavoro in Francia mi assorbe quasi totalmente, considerando che non c’è solo la squadra di salto ostacoli ma anche quella di completo, per la specialità del salto ostacoli. Se le faccio vedere la mia agenda si renderà conto che fino alle Olimpiadi io sono impegnato sette giorni su sette… ».
Per lei non fa alcuna differenza lavorare per una squadra piuttosto che per un’altra?
«Quando sposo un progetto io mi faccio coinvolgere al 100%. In questo momento in Francia mi trovo benissimo: lavoro come dico io, facciamo tutto quello che riteniamo sia indispensabile fare, tutte le varie componenti si fidano l’una dell’altra e si sentono coinvolte in un progetto comune. È un piacere lavorare così».
Anche perché in Francia c’è un grande potenziale…
«Certo, certo. Un buon potenziale… ».
Cosa che però potrebbe rappresentare anche una difficoltà maggiore rispetto a un Paese più debole e quindi con minori aspettative…
«Beh, di certo non si può promettere una medaglia ogni anno, però dal mio punto di vista quello dovrebbe essere l’obiettivo da perseguire. Poi può capitare che un anno su quattro qualcosa vada storto… speriamo che per noi non sia il 2012!».
È strano sentire Henk Nooren usare un ‘noi’ francese…
«Ma io adesso mi sento francese… Nel senso che mi sento profondamente parte di questa situazione, di questo progetto. Quando sono arrivato la situazione era molto diversa: non c’era spirito di squadra, ognuno se ne stava sulla sua isoletta, e per ognuno non intendo solo i cavalieri: parlo anche di proprietari, tecnici, dirigenti. Nel corso degli ultimi vent’anni tra i proprietari e la federazione c’è stata una lotta continua… Oggi invece ci si parla: magari non si è sempre d’accordo, ma si parla, ci si mette al corrente l’uno dei problemi dell’altro, se ne è consapevoli. Il rapporto con i proprietari si è completamente ribaltato: oggi chi possiede cavalli sportivi è orgoglioso di essere un proprietario per la Francia. E i proprietari sono fondamentali nel nostro sport».
Ma di tanto in tanto non pensa che tutto questo sarebbe bello viverlo per l’Olanda, il suo Paese natale?
«No, non al momento. Io sono nato in Olanda, mia figlia è olandese, di certo seguo quello che accade in Olanda con interesse e curiosità, ma… no, al momento io sono felice di essere… francese. Sto bene dove sto, sono felice di fare quello che faccio. E le dico anche che la Francia sarà l’ultima squadra nazionale che io seguirò come tecnico. Non smetterò ovviamente di fare questo mestiere, ma non più per una squadra, mi dedicherò solo a singoli cavalieri».
Quindi per l’Italia non ci sarà più una eventuale seconda possibilità…
«Eh eh eh (risata, n.d.r.), no, dopo le Olimpiadi di Londra mi voglio fermare. No, il mio lavoro è sul campo, non ho più voglia di passare giorni e giorni al telefono parlando con questo e con quello… magari in quel momento preferirei montare un cavallo, o lavorare con qualcuno che sta montando un cavallo. No, mi voglio fermare. Potrebbe esistere forse una possibilità di prolungare il mio rapporto con la Francia per altri due anni fino al Campionato del Mondo, visto che sarà proprio in Francia… Ma non lo so, non ne abbiamo ancora parlato, lo faremo eventualmente dopo le Olimpiadi, con calma. Comunque dopo la Francia basta squadre nazionali, questo è certo».
Quali sono le principali differenze tra i Paesi per i quali lei ha lavorato come tecnico nazionale?
«Ah, bella domanda… Ho cominciato in Olanda due anni prima delle Olimpiadi di Seul e fino al Campionato d’Europa di Rotterdam 1989, e poi sono passato alla Spagna. La decisione di passare alla Spagna l’ho presa da un giorno all’altro… Il primo anno in Spagna è stato una vera e propria guerra. Guerra totale. Ma poi è diventata una esperienza meravigliosa, davvero: ci siamo capiti meglio, io sono diventato un pochino meno esigente, loro sono diventati molto più puntuali (risata, n.d.r.). Ma per me è stato abbastanza scioccante: ero molto giovane, provenivo da cultura e abitudini completamente diverse… insomma, non è stato facile».
E il suo periodo italiano?
«Bello. La prima metà è stato proprio un bel periodo. Poi invece la fine è stata… diciamo meno bella, ecco. Soprattutto perché alla fine del terzo anno io mi sono trovato ad avere uno scarso controllo della situazione… diciamo. Forse tutto è partito dalla mancata qualificazione della squadra per le Olimpiadi di Atlanta, che poi abbiamo comunque raggiunto grazie ai risultati individuali e dove l’Italia ha fatto infine una buona prestazione generale. Ecco, da quel momento e per tutto l’anno precedente le Olimpiadi è venuta fuori in maniera forte la mentalità italiana, quella per la quale tutti, nonni, bisnonni, parenti, amici, conoscenti, gente che passa di lì per caso… tutti si sentono più capaci e più competenti e più professionali di quanto lo siano tecnici e atleti».
Quale è il miglior cavaliere con il quale si è trovato a lavorare?
«Marcus Ehning senza dubbio. Ho avuto il privilegio di lavorare con tanti grandi campioni, ma lui è davvero speciale».
Per lei è meglio lavorare con una persona disponibile e piacevole ma limitata come cavaliere, o invece preferisce il grande cavaliere umanamente sgradevole?
«Diciamo che la piacevolezza della persona aiuta, ma non è la cosa fondamentale. Come non è fondamentale la bravura tecnica del cavaliere. La cosa davvero fondamentale, imprescindibile, è il comune desiderio di raggiungere l’obiettivo, il comune interesse nel lavorare insieme. Quando inizio a lavorare con qualcuno in genere io mi limito a dare poche indicazioni e pochi suggerimenti fino al momento in cui sarà quella persona stessa a chiedere di più: ecco, quello è il momento in cui si stabilisce l’intesa, la collaborazione, la voglia di parlare una lingua comune. Allora si costruisce qualcosa insieme. Allora scatta la volontà da entrambe le parti di migliorare insieme su basi comuni».
Ma lei condivide anche momenti di vita extrasportiva con i suoi cavalieri? Diventa loro amico?
«No, non necessariamente».
Condividere con i cavalieri qualcosa che va oltre la relazione tecnica influenza il suo modo di lavorare con loro?
«No, per nulla. Per me è molto facile dividere le cose. Io cerco soprattutto di essere un buon trainer: per fare questo devo considerare ogni minimo dettaglio nella vita tecnica e sportiva dei cavalieri con i quali lavoro, ma questo non vuol dire diventare loro amico. Quando qualcuno viene a lavorare a casa mia ovviamente rimane a cena ogni sera per tutto il tempo che si ferma da me, ovviamente si chiacchiera, si mangia e si beve, ma non si diventa amici solo per questo. Mantenere un po’ di distanza in genere aiuta a rimanere più obiettivi. Quello che è davvero importante è stabilire un rapporto di cieca e totale fiducia nel lavoro: questo sì. Ma lo si può fare anche senza essere amici, anzi, forse lo si fa perfino meglio».
È sua abitudine studiare i cavalli e i cavalieri che lavorano con lei anche utilizzando filmati?
«No, grazie a Dio ho una ottima memoria fotografica. Certo, soprattutto a fine anno guardo qualcosa che mi possa servire per il lavoro dell’anno successivo, per fare un po’ il punto della situazione su alcuni cavalli e su alcuni cavalieri, ma in generale mi fido molto di più delle sensazioni che provo dal vivo, nel vedere un percorso con i miei occhi. E soprattutto quella sensazione rimane dentro di me molto nitida e chiara anche a distanza di molto tempo, come in una specie di archivio mentale che posso consultare in qualunque momento».
La sua vita privata sarà influenzata in qualche modo dall’intensità del suo lavoro…
«Sì, lo è sempre stata, è proprio per questo che ho deciso che la Francia sarà la mia ultima squadra. Mia figlia ha 14 anni e monta molto bene, davvero molto bene: fino a oggi ha fatto un ottimo lavoro con sua madre e ci sarebbe stato davvero molto poco che io avrei potuto fare di più e di meglio. Ma la vedo troppo raramente, a volte passano anche mesi… Da dopo Londra starò con lei molto di più. Anche perché tra quello che a cavallo sta facendo adesso e quello che vorrebbe fare in futuro c’è un bel salto: avrà bisogno non solo di assistenza tecnica da parte mia ma anche di cavalli giusti. Questo è quello a cui mi voglio dedicare dal momento in cui finiranno le Olimpiadi di Londra. A mia figlia».