Cavallo Magazine, 5 settembre 2024 – Sembra impossibile eppure è così: nel nostro mondo, non c’è posto per tutti. Soprattutto pare non esserci abbastanza posto per i cavalli che vivono allo stato brado, pronipoti in qualche caso dei cavalli selvaggi e molto più spesso rinselvatichiti a seguito dell’intervento dell’uomo. Quale che sia la loro origine, poco importa. Quello che conta è che sempre più spesso si reitera il problema di cosa fare dei wild e come. Argomenti sui quali si aprono fronti di asprissima discussione tra protettori e detrattori. Due casi su tutti tengono acceso, da anni, il dibattito mondiale. Quello dei wild statunitensi e quello dei Brumbies australiani.
Un problema annoso per lo Zio Sam
La gestione dei wild statunitensi è un argomento che ha radici varie per cronologia e ubicazione. Secondo le stime di American Wild Horse, ci sarebbero circa 80mila tra cavalli, asini e muli che pascolano su 27 milioni di acri di spazio pubblico (155 milioni di acri quelli invece a cui hanno libero accesso gli allevatori di bestiame con i loro capi). Il loro accesso a questi terreni, equiparabili ai nostri spazi demaniali, è stato garantito nel dicembre del 1971 dall’approvazione unanime da parte del Congresso della legge Wild Free. Roaming Horses and Burros, firmata dall’allora presidente Richard Nixon.
Ma da allora fino a oggi, le cose sono solamente peggiorate.
I branchi definiti wild, differentemente da quello che si sarebbe portati a pensare, non sono localizzati in un’unica, seppur vasta, zona. La loro presenza interessa più di uno Stato dell’Unione e spesso le normative locali confliggono con quelle del Bureau of Land Management (BLM), l’agenzia in seno al Dipartimento dell’Interno del governo centrale statunitense che ha il compito di gestire gli animali che vivono allo stato brado sui terreni demaniali.
Ci sono i wild della Tonto National Forest in Arizona, quelli del Wyoming, i Mustang, gli Onaqui, quelli delle Pryor Mountains in Montana, i Nokota del Nord Dakota… Insomma, se è vero che gli States trovano nell’epopea western il loro momento di massima espansione, bisogna anche ricordare che tutta la strada per unire west e east coast è stata percorsa in sella. E i cavalli sono stati quindi onnipresenti in questo processo.
Ogni gruppo di wild ha quindi un’origine e una storia particolare ed è legato al territorio dove abita per i motivi storici più diversi.
Lo strano caso del Roosevelt National Park
Quando si sentono storie come quella che interessa il branco dei re-wild del Roosevelt National Park, in Nord Dakota, viene da riflettere sulle possibilità dell’intelletto umano, capacissimo di portare l’uomo sulla luna ma estremamente carente in aspetti assai meno complessi.
Siamo nel tardo ‘800. I coloni provenienti dal Vecchio Continente si stanno via via insediando in quelli che erano stati i territori dei nativi Dakota Sioux. Allevano, hanno ranch e i loro cavalli vivono liberi fino al momento del round-up, quando vengono incanalati nei recinti e si provvede alla selezione dei soggetti che diventeranno cavalli da ranch e aiuteranno nel lavoro e negli spostamenti. Tutto procede al ritmo delle stagioni fino al momento in cui la storia dell’uomo comincia a far girare tutto molto più in fretta. I cavalli vengono sostituiti dalle jeep e dai pick-up. Più tardi perfino dagli elicotteri… Ma intanto, nel 1947, quei luoghi tanto cari al presidente Roosevelt, che già nel 1901 aveva pensato di renderli area protetta, vengono decretati parco nazionale e per disposizione dell’allora presidente Truman, vengono recintati. È l’atto formale per la costituzione del Roosevelt National Park.
Per partire con il piede ‘giusto’, nel 1954 vengono ‘rimossi’ circa 200 cavalli marchiati, che non erano certo a conoscenza dei nuovi perimetri che l’uomo stava ponendo ai loro spazi.
Aggiungendo approssimazione al maligno, alcuni soggetti elusero la cattura. Venne stabilito che sarebbe stato più complesso andare a cercarli e si decise quindi di far finta che non ci fossero.
Neanche a dirlo, per i cavalli fu una manna. Con un branco ridotto e quindi più possibilità di pascolo, i ‘ragazzi’ fecero esattamente quello per cui sono stati disegnati: conservarono la specie. In pratica si riprodussero anno dopo anno. Fino a tornare a rappresentare una presenza numericamente insostenibile. Oggi i soggetti presenti nel parco sono circa 200. Dovrebbero essercene al massimo tra i 35 e i 60 capi. Ma su questi numeri c’è un acceso dibattito. Secondo alcuni esperti, sarebbe un numero insufficiente a garantire una varietà genetica adeguata. Secondo altri un numero superiore di capi sarebbe invece difficilmente gestibile e potrebbe compromettere l’ecosistema del parco.
Come si diceva, ogni gruppo di wild ha un legame con i propri luoghi e, nel caso dei selvaggi del Roosevelt National Park, il territorio si sta ergendo a difensore dei propri cavalli. Che sono diventati, tra l’altro, un volano turistico piuttosto significativo. In molti infatti ne stanno strenuamente difendendo le sorti a suon di sentenze in tribunale, con tanto di studi legali e celebrities che ne diventano alternatamente testimonial.
Il Mustang, wild per eccellenza
Nell’immaginario, il wild americano per definizione è il Mustang ed è legato alle tribù dei nativi. Posto che sicuramente gli indiani d’America si spostavano e cacciavano a cavallo, anche in questo caso sarebbe più corretto parlare di re-wild dato che questi cavalli originano, secondo molti studiosi, dai cavalli degli spagnoli arrivati nel Nuovo Continente. La parola inglese mustang deriva dallo spagnolo mesteño, che significa non domato. Si tratta di cavalli che nella stragrande maggioranza dei casi dispongono di una morfologia che per gli amanti del bello non corrisponde esattamente ai dettami canonici. Però… Sono cavalli che, per la loro storia passata e attuale, rappresentano l’essenza della libertà e quindi assumono immediatamente l’allure dei veri eroi. In senso lato, ‘Mustang’ è il cognome dei diversi gruppi di re-wild che prendono poi il nome dalle zone in cui si sono insediati: Nokota, Onaqui e così via.
Ora, il problema con questi cavalli è che, nonostante fosse stato firmato e sancito il loro diritto a esistere, a più riprese si è cercato di ridurne massicciamente la presenza.
I re-wild statunitensi non vengono macellati negli Usa perché dal 2007 è vietato il consumo di carne equina. Ne vengono però spediti all’estero per la macellazione circa 20mila all’anno (dato del 2020) e parte della carne rientra negli States per la produzione di mangimi per animali. Periodicamente i re-wild vengono tolti dal territorio. Radunati e tenuti in cattività in recinti gestiti dal Bureau of Land Management. Qualcuno viene adottato, altri vengono presi in carico dalle charity, un buon numero viene spedito ai macelli soprattutto in Messico… Molti finiscono la loro vita tra i recinti dove viene sì garantito loro il fieno, ma dove malattie, incuria e una vita totalmente diversa da quella che conducevano nel branco, liberi, possono condurre rapidissimamente alla morte.
Inoltre, fa fortemente discutere il modo impiegato per ‘prelevare’ i cavalli dal territorio in cui sono abituati a muoversi in libertà. L’impiego di elicotteri per i round-up è causa di morti e gravissimi infortuni tra gli animali. Letteralmente terrorizzati, questi pacifici predati in molte occasioni non hanno esitato a gettarsi in massa nel vuoto pur di sfuggire ai cowboys volanti, finendo la loro vita in fondo ai canyon. Insomma, una vera barbarie in cui l’eroe buono diventa vittima e colui che dovrebbe avere la ragione si riduce al ruolo di carnefice.
Inutile dire che gli interessi che stanno dietro alla gestione dei wild sono enormi… E forse questo è il vero problema: non si fa niente per gestirli perché è molto più remunerativo risolvere il problema una volta che si è lasciato spazio affinché si creasse.
Il cattivo esempio dell’Australia
L’Australia è una nazione enorme. Un Continente. Con una densità media di 2 abitanti per chilometro quadrato (contro i 196 in Italia). Insomma, stiamo parlando di un paese con un sacco di spazio. Dove animali e uomini non dovrebbero avere alcuna difficoltà a convivere. E invece così non è. Solo pochi mesi fa è stata autorizzata una legge che consente l’abbattimento dagli elicotteri dei Brumbies, i cavalli re-wild australiani che a causa dell’incapacità dell’uomo, sarebbero ora diventati un problema per l’ecosistema di alcune zone del paese. Nella fattispecie del Kosciuszko national park, nel Nuovo Galles del Sud.
I Brumbies hanno una storia molto simile a quella dei Mustang, solo più recente.
Secondo l’Associazione che cerca di difenderne la libertà, i Brumbies sarebbero i ‘pronipoti’ dei primi cavalli che approdarono in Australia provenienti dalla Gran Bretagna. Pare che tutto ebbe origine da sette cavalli che arrivarono nel 1788. Non solo sopravvissero a un viaggio che oggi è assolutamente impossibile immaginare, ma riuscirono anche ad adattarsi alle nuove condizioni di vita e riprodursi. La loro selezione naturale imposta dalle nuove condizioni di vita, consentì solo ai più forti e resistenti di sopravvivere. Il loro nome si deve a tale James Brumby, che lasciò i suoi cavalli liberi di pascolare dove volevano. Gli animali presto si abituarono alle offerte alimentari dei bush – la macchia australiana – e si incrociarono senza ‘discriminazione’. Tanto che nelle linee di sangue degli attuali Brumbies si rintraccia il Purosangue, il cavallo da lavoro, l’Arabo…
La popolazione più numerosa di questi cavalli è ospitata a Nord, nel Queensland e nel Nord Ovest del paese. In pratica in quelle aree in cui l’uomo ha preferito non insediarsi massicciamente, proprio a causa delle condizioni atmosferiche poco ospitali.
Dall’indole versatile e dal fisico resiliente, i Brumbies sono stati sempre molto vicini all’uomo. Sono stati eccellenti cavalli-soldato nei conflitti mondiali, nella guerra dei Boeri in Sud Africa, servono nelle forze dell’ordine e nei tempi della caccia all’oro hanno lavorato come fedeli portantini.
Eppure, nonostante un credito d’onore così radicato nel tempo, l’esito del rapporto con l’uomo è oggi sconfortante.
Laddove si sarebbe dovuto ‘governare’ la loro diffusione, per anni il problema è stato ignorato e così, stagione dopo stagione, i cavalli si sono riprodotti. Lo scorso ottobre, relativamente alla popolazione del Kosciuszko national park, sono stati censiti 17.432 soggetti. Nel 2016 erano circa 6.000.
Secondo le valutazioni del Governo del Nuovo Galles del Nord, la popolazione dei Brumbies nel parco deve essere ridotta a 3.000 cavalli entro giugno 2027. Che significa che ci sono oltre 14mila soggetti in esubero. Una enormità…
Purtroppo le adozioni e altre forme di prelievo ‘benevolo’ dal territorio di fronte a numeri del genere sono solo frecce spuntate. E così è stato decretato l’abbattimento.
Per scongiurare il rischio di una possibile crisi alimentare dettata dal sovrappopolamento, i legislatori hanno deciso di intervenire all’origine e sopprimere i cavalli prima che il problema si verifichi.
Inutile dire che questa scelta ha suscitato proteste molto aspre e ora la questione sta rimbalzando nelle aule dei tribunali. In una due-giorni di prova, sono stati abbattuti 270 cavalli. Va detto che l’aerial culling, questo il termine per l’abbattimento dagli elicotteri, è una pratica assai diffusa in tutta l’Australia. Un altro esempio di come questo genere di soluzioni sia sempre preferito rispetto alla gestione del problema delle nascite. Quasi che non ne avessimo mezzi e conoscenze…
N.B. Questo articolo è stato pubblicato all’interno del numero cartaceo di Cavallo Magazine di febbraio 2024.