Cavallo Magazine, 3 settembre 2024 – 1:23 ora locale dell’Oblast’ di Kiev, Ucraina. 26 aprile 1986: il giorno e l’anno di Černobyl’.
Da lì in poi il mondo è cambiato. Il disastro nucleare, da scenario apocalittico per i film prodotti dalle major americane, si è trasformato in un incubo nel cuore dell’Europa. Vicino a casa. Molto vicino. Fu il disastro nucleare di cui si parlò di più, pur non essendo il primo. Era già accaduto qualcosa di simile, infatti, a Three Mile Island, nella Contea di Dauphin, in Pennsylvania, il 28 marzo 1979. Ma in quell’occasione la fusione del nocciolo fu solo parziale. E gli Stati Uniti, tutto sommato erano lontani…
Ma a Černobyl’, in pochi minuti, tutte le peggiori paure dell’occidente si trasformarono in realtà. Lo scoprimmo giorni dopo, quando iniziarono ad arrivare le prime notizie. L’orrore, la paura per le radiazioni, per la contaminazione, per le malattie… Alcuni esperti stimarono che il disastro di Černobyl’ diffuse radiazioni in misura 400 volte superiore a Hiroshima a causa della quantità di combustibile nucleare. E ciò impose la creazione di una vasta area di bonifica, intorno all’impianto nucleare, che fu affidata a circa 600mila liquidatori che ebbero il compito di decontaminare edifici, strade e creare una vasta cintura dove si pensò che la vita non sarebbe tornata mai più. O che, nel caso, sarebbe stata mostruosa, figlia delle radiazioni. Pryp“jat‘ divenne una città fantasma, tutti gli abitanti vennero evacuati. E la vita intorno a Černobyl’ finì.
O almeno così si pensò. Tuttavia, alcuni animali sopravvissero all’epurazione dei liquidatori e continuarono a vivere, rinselvatichiti, nell’area in cui nessuno si avvicinava, l’area di esclusione.
A distanza di 30 anni, intorno a Černobyl’ sono cambiate diverse cose. Se è vero che le radiazioni conservano la loro mortifica influenza e l’area non è ancora idonea alla vita umana in sicurezza, altrettanto non può essere detto per la flora e la fauna. Dopo che l’uomo se ne è andato, la natura ha potuto riprendere il proprio corso, adattandosi, come sempre è stato, alle nuove condizioni. La riserva nazionale per la biosfera di Černobyl’, conosciuta come CEZ (Černobyl’ exclusion zone, ndr), è la terza per dimensione in Europa e i suoi 2800 metri quadrati di estensione sono un laboratorio a cielo aperto eccezionale per gli esperimenti di re-wilding, ovvero di reimmissione in natura di alcune specie animali.
Tra queste, i cavalli.
Dalla rovina il nuovo inizio
Al momento del disastro nucleare, intorno a Černobyl’ si era sviluppata un’area urbana popolata dai molti operai dell’impianto nucleare e dalle loro famiglie. La città di Pryp“jat’, nata dal nulla, era in piena espansione e per i cavalli di sicuro non c’era posto. E infatti non ce n’erano. La loro presenza risale a 12 anni dopo il disastro quando, nel 1998, trentuno soggetti di razza Przewalski furono introdotti nell’area CEZ. Si trattava di tre femmine provenienti da uno zoo, 10 maschi e altre 18 femmine provenienti dalla riserva di Askania Nova, in Ucraina.
All’inizio la re-immissione in natura costò cara a diversi soggetti che non superarono il primo stadio del reinserimento allo stato brado. Ma un alto tasso di nascite portò, in soli 5 anni, a una popolazione di 65 esemplari. Seguì poi un problema di bracconaggio. Tra il 2004 e il 2006 ne vennero abbattuti diversi, pur vigendo un divieto assoluto di consumare carne proveniente dalla zona di esclusione. Nel 2007, la popolazione dei cavalli di Černobyl’ era scesa a 50 capi. E di sicuro non a causa delle radiazioni…
Una nuova politica di tutela ristabilì la sicurezza per i cavalli e in meno di 20 anni, ne sono stati censiti 150 nel solo versante ucraino dell’area di esclusione.
Che purtroppo oggi è ai margini di una nuova sciagura umana chiamata guerra, dove un altro tipo di meno nobili ‘selvaggi’ ha guadagnato il favore dei riflettori.
Figli della sopravvivenza
I cavalli utilizzati per l’operazione re-wild nell’area di Černobyl’ sono definiti ‘primordiali’. Si tratta dei Przewalski, che devono il loro nome a Nikołaj Przewalski, geologo ed esploratore russo che per primo ne indicò la possibile provenienza. L’Equus Ferus Przewalskii, questa la nomenclatura scientifica, è un cavallo originario delle grandi pianure dell’Asia centrale, abituato a muoversi in branco nei grandi spazi alla ricerca del cibo. Rispetto ai cavalli domestici che ne hanno 32, il Przewalski ha 33 coppie di cromosomi, e questa non è che una delle tante differenze che lo distinguono dai nostri comuni amici di scuderia. Molti ritengono che sia portatore della genetica dell’ultimo cavallo selvaggio del pianeta. Altri studi invece, basati sul filo genoma dei popoli che pare li abbiano incontrati, raccontano che fu il primo cavallo soggetto a domesticazione.
Senza addentrarci troppo in materia da laboratorio, quello che è stato osservato nei secoli è che si tratta di un cavallo di piccola taglia straordinariamente attrezzato per la sopravvivenza anche nei territori meno ospitali. Un soggetto sicuramente in grado di cavarsela, forse perfino meglio, senza ‘l’aiuto’ dell’uomo.
Nel caso di quelli reintrodotti nell’area CEZ, gli studiosi hanno notato che pur essendo cavalli della steppa, si sono rimodulati per la vita nei boschi, compresa la famosa ‘foresta rossa’, quella che si è sviluppata in un raggio di 10 chilometri dalla centrale, considerata come il luogo più radioattivo di tutto il pianeta.
Sono 13 i branchi di femmine con puledri a oggi monitorati dagli studiosi che osservano principalmente l’adattamento degli organismi in una zona così compromessa e contaminata. Ci sono sei gruppi di stalloni e alcuni soggetti solitari. Solo cinque anni fa sono state monitorate 22 nascite e persino lo spostamento di alcuni soggetti che, alla faccia dei blocchi geopolitici, si sono ‘trasferiti’ oltre i confini della Bielorussia.
Oggi che le zone tra Ucraina e Bielorussia sono nuovamente diventate nevralgiche a causa della guerra, non sappiamo quale sia la reale situazione. Né se anche questa volta i selvaggi di Černobyl’ siano riusciti a rimanere a distanza di sicurezza dall’uomo che alla fine si sta rivelando, attraverso le sue sconsiderate azioni, il suo più acerrimo nemico.
La scienza dice che…
Secondo gli studiosi di tutto il mondo, l’immissione dei Przewalski nella CEZ di Černobyl’ è stato un successo. Da un lato ha contribuito alla diffusione di una razza considerata a lungo pressoché estinta. Dall’altro ha consentito di studiare quale fosse l’impatto della contaminazione radioattiva nei confronti della vita del pianeta. Sorprendentemente, proprio dall’osservazione della CEZ è emerso che molte specie, parimenti di flora e fauna, più che soffrire per le radiazioni hanno beneficiato dell’assenza dell’uomo. In un habitat scevro dall’antropizzazione, molti animali e molte piante hanno trovato rifugio e sono riuscite a riprodursi. Sono tornati la lince euroasiatica, infinite varietà di uccelli, l’orso bruno, le cicogne nere, il bisonte europeo, i lupi e i cavalli, con un sistema di coabitazione davvero molto vicino (quando non perfettamente aderente) alla condizione selvaggia.
In Bielorussia è stato osservato che tra il 1987 e il 1996 ci fu una vera e propria esplosione demografica tra cinghiali, alci e caprioli e gli studi più recenti confermerebbero che – così come invece si temeva – non ci sono state evoluzioni genetiche aberranti tra gli animali che hanno popolato le zone inquinate negli ultimi 30 anni. Il tutto ovviamente salvo future smentite da parte di un’osservazione scientifica che per sua stessa natura è in continua evoluzione.
Al momento, l’unico dato che risulta interessante sotto il profilo evolutivo e dell’adattamento dei cavalli riguarda la loro alimentazione.
Le trappole fotografiche piazzate nell’area interessata hanno rivelato che nonostante l’origine che li vuole instancabili camminatori delle steppe, gli Przewalski di Černobyl’ hanno scelto i boschi per approvvigionarsi, mutando quindi la loro dieta originaria.
Un dato apparentemente insignificante ma che racconta la lunga storia dell’adattamento e quindi dell’evoluzione della specie.
Che tuttavia non ha finito la propria funzione…
Nel 2022, secondo rilevamenti dell’Agenzia Spaziale Europea, l’area CEZ è stata interessata da sette incendi di vaste dimensioni rilevati perfino dal satellite. La causa più accreditata per questo ennesimo disastro è naturalmente di origine bellica, ma al momento non ci sono dati scientifici sufficienti a determinare quale danno abbia subito la conservazione delle specie di quei luoghi. Cavalli compresi.
E questo avvalora quindi la tesi che, stabilito che il post-nucleare non ha prodotto Przewalski carnivori o con due teste, ancora una volta il cavallo ha saputo organizzare la propria sopravvivenza nonostante noi.
Il fatto che un’area tanto inquinata sia diventata il nuovo habitat per flora e fauna selvatiche solo perché l’uomo è rimasto alla larga dovrebbe farci riflettere sul nostro impatto sull’ecosistema naturale, che pare essere perfino più dannoso delle radiazioni.
Anche altre aree che sono state soggette a radiazioni, come l’atollo di Bikini, sede di test nucleari circa una settantina di anni fa, conservano una grande biodiversità e presenza di animali selvatici. E c’è chi sostiene che, alla luce di questi fatti, potrebbe rendersi necessario un ‘aggiornamento’ sulla valutazione dell’impatto della radioattività sull’ambiente.
Anche a Fukushima, in Giappone, si sta osservando una rilevante presenza di flora e fauna selvatica nell’area interessata dal disastro del 2011.
C’è ancora, quindi, molto da imparare sui meccanismi che consentono la vita a flora e fauna selvatici in aree soggette a contaminazione radioattiva. Riconducibili in linea generale alla lotta per la sopravvivenza delle specie e all’adattamento, il dettaglio scientifico di come tali meccanismi funzionino ancora sfugge agli studiosi.
Fermo restando che i cavalli sono arrivati a Černobyl’ solo dopo il disastro, è possibile che ciò di cui si sono nutriti fino a oggi avesse un valore radioattivo inferiore a quanto si pensi? È possibile che l’esposizione a luoghi contaminati sia risultato meno dannoso? È possibile che alcuni organismi abbiamo maggiori capacità di ‘auto ripararsi’ dai danni delle radiazioni? Secondo alcuni studiosi ucraini, la zona in cui vivono questi cavalli non sarà abitabile dall’uomo per i prossimi 24mila anni…
Sono tantissime le domande di chi da anni tiene sotto una lente d’ingrandimento questa realtà e che aspetta di potersi rimettere al lavoro, appena la situazione socio-politica di quelle zone lo consentirà.
Stessa faccia stessa razza?
17mila anni fa, sulle pareti di una caverna nel sud della Francia (Lascaux), un talentuoso antenato dei moderni graffitari disegnava un cavallo.
Che per aspetto e conformazione richiama a gran voce gli Przewalski fotografati a Černobyl’.
Sicuramente la biosfera del pianeta a quei tempi era qualcosa di profondamente diverso da ciò che conosciamo oggi. Ma ciò che colpisce è soprattutto la geolocalizzazione che riguarda il papà dei moderni cavalli. Il cavallo di Przewalski – che prima di colui che gli diede il nome era conosciuto come Takhi – pare fosse diffusissimo in tutta Europa e in Asia. Oltre all’evidenza della grotta di Lescaux, innegabile la somiglianza con il Fjord e con la morfologia di molti cavallini della Mongolia che ancora manifestano la loro inusuale resilienza ad ambienti inospitali.
Pare che l’ultimo Takhi veramente selvaggio sia stato avvistato proprio in Mongolia nel 1960. Da lì in poi, nessuno dei suoi ‘eredi’ ha potuto essere definito a pieno titolo selvaggio. Gli esempi più recenti sono dichiaratamente soggetti ‘re-wild’ ovvero re-introdotti dall’uomo in un contesto in cui non subiranno grosse interferenze antropizzate.
La riserva della biosfera di Černobyl’, per quanto possa sembrare aberrante, ha costituito in questa prospettiva una straordinaria opportunità di sopravvivenza per questa razza.
La vita post-nucleare
Quando si pensa alla vita dopo l’atomica, corrono alla mente immagini inquietantemente cupe, senza luce. In cui tutto è grigio, tetro, umido e freddo. In parte l’immaginario corrisponde alla descrizione di una qualsiasi giornata invernale nella zona di Černobyl’ che, climaticamente parlando, non è certo simile a una cittadina della nostra riviera.
Inoltre, lo spopolamento dovuto all’evacuazione degli uomini ha lasciato sul territorio edifici che con il tempo sono stati avvolti dalla natura, fagocitati dalla vegetazione, tanto da diventare occasionale riparo per gli animali.
Negli anni, gli studiosi hanno raccolto più di 11mila scatti, grazie alle trappole fotografiche, di cavalli che abitualmente utilizzano vecchi edifici e stalle per ripararsi
Ma se a tutto ciò si abbina una connotazione emotiva fosca, si rischia di sbagliare. La vita degli animali selvatici di Černobyl’ ha riguadagnato le tinte che appartengono alla loro esistenza vera, quella di prima che l’uomo intervenisse a cambiarle. I Tahki di Černobyl’ vivono oggi una vita molto più vicina alla loro natura rispetto a quella proposta agli esemplari custoditi in cattività, negli zoo, per evitarne l’estinzione totale. Interagiscono con il territorio secondo i propri bisogni e non secondo quelli che noi interpretiamo essere tali. Sicuramente sono animali meno longevi dei nostri cavalli scuderizzati. Meno curati. Altrettanto sicuramente sono più esposti a incontri con lupi o altri predatori. Tuttavia sono indubbiamente più liberi di assecondare il proprio schema evolutivo che li vuole forti, resistenti alla fatica, frugali, capaci di cibarsi con ciò che l’habitat offre loro. Mangiano, camminano, si muovono in libertà senza sella o finimenti, si riparano dove e se vogliono, si riproducono rispondendo sempre a un’unica legge: quella della natura.
N.B Questo articolo è stato pubblicato sul numero cartaceo di Cavallo Magazine di febbraio 2024.