Bologna, novembre 2015 – E’ passato un fine settimana di sport. Ma è passato soprattutto un fine settimana di tragedia. In ogni caso vita, anche se si è parlato soprattutto di morte: quella atrocemente reale delle persone assassinate a Parigi, e quella simbolica che la follia del terrorismo vorrebbe infliggere al mondo occidentale, o comunque a quella parte di mondo estranea alla logica terroristica. Come se non fossero bastati il dolore e lo strazio sparsi ovunque nel mondo dall’azione terroristica, in Italia si sono aggiunti fiumi di parole che in un senso o nell’altro hanno strumentalizzato la tragedia per avvalorare o quanto meno giustificare alcuni propri convincimenti personali: ne abbiamo lette e sentite davvero di tutti i colori in televisione, sui giornali, sui social. Dovendo amaramente constatare come spesso l’assunto ‘violenza genera violenza’ sia semplicemente vero: in molti casi è sembrato che la catastrofe di Parigi sia servita come alibi per l’apertura dei rubinetti della rabbia personale contro qualcuno o qualcosa che non fosse necessariamente il terrorismo e chi lo ha materialmente messo in atto; i rubinetti di una ingiustificabile soddisfazione personale nel poter dimostrare che ciò che è accaduto in Francia sia null’altro che la conferma di quanto giusta fosse la propria idea e quanto sbagliata quella altrui. Ma queste sono considerazioni di carattere generale che alla fin fine riguardano la sfera dell’etica di ciascuno di noi. Rimaniamo allo sport. Lo sport non è solo momento di piacere e di passione e di divertimento per chi lo pratica e per chi lo sta a guardare: è anche un formidabile canale di comunicazione grazie al fatto che riunisce trasversalmente persone che proprio in quel piacere e in quel divertimento e in quella passione trovano un motivo di unione collettiva. I messaggi che provengono dal mondo dello sport sono ‘forti’ perché in teoria non dovrebbero avere né bandiera né colore, quindi per questo raggiungere più facilmente la coscienza di chiunque. Si è molto discusso in questi ultimi due giorni a proposito della mancanza da parte dei cavalieri francesi impegnati a Doha nell’ultima gara del Longines Global Champions Tour (a proposito: il sito internet del circuito ha sovrapposto la bandiera francese all’immagine di Luciana Diniz vincitrice, allegando un messaggio di cordoglio) di un qualunque segnale di solidarietà o appartenenza o coinvolgimento in quello che era accaduto e stava accadendo a Parigi. Però bisogna distinguere con precisione due aspetti della vicenda: un conto è ciò che i cavalieri francesi a Doha hanno o non hanno pubblicamente esternato in quel preciso momento, un conto è ciò che ciascuno di loro ha vissuto nel profondo dell’animo (e ovviamente il discorso va esteso in tal senso ai concorrenti di qualunque altra nazionalità). Dire che dei fatti di Parigi a loro non sia importato più di tanto (si è detto infatti anche questo, o si è comunque tentato di farlo credere) dal momento che non vi è stata alcuna pubblica esternazione o azione o segno o gesto da parte loro è semplicemente scorretto, oltre che pretestuoso. Dire che da parte loro si è persa l’occasione di sfruttare lo sport quale veicolo di condivisione di un messaggio che avrebbe avuto una portata e un significato di grandissimo valore è invece giusto, oltre che doveroso. In ogni caso tutto ciò attiene al libero e soggettivo arbitrio, così come libera e soggettiva è la possibilità di criticare tale mancanza: ognuno fa ciò che sente e crede (e in ogni caso, andando per metafora, non essere eroe non è una colpa). Quello che invece a nostro avviso è oggettivamente mancato è l’intervento della Fei e del Cio: istituzioni sovranazionali che proprio in quanto tali avrebbero dovuto coordinare un atteggiamento unico e univoco nei confronti del dramma di Parigi da parte di tutte le manifestazioni sportive equestri (Fei) e da parte di tutte le federazioni sportive nei confronti delle loro manifestazioni agonistiche (Cio). La Fise – per esempio – di sua spontanea iniziativa lo ha fatto, addirittura precedendo il Coni che pure ha tempestivamente inviato una direttiva specifica in merito. In un momento come questo è odioso e malsano mettersi a fare discorsi circa forma e contenuto, tuttavia è inevitabile: anche perché in assenza di tale intervento si è data l’opportunità all’opinione pubblica di farsi le idee più disparate circa – per esempio – i rapporti tra Fei e Qatar (e tra Fei e Paesi arabi in generale), tra cavalieri e organizzazione del LGCT. Dando a ciascuno il potere di sentirsi autorizzato a formulare le ipotesi più varie, tra le quali certamente anche qualcuna giusta. Il dramma di Parigi – il sangue, le lacrime, il terrore, la vita, la morte – si trasforma così in qualcosa che perde i suoi connotati di materiale e reale realtà per divenire una discussione quasi accademica su cosa avrei fatto io e cosa invece hai fatto tu. Un semplice intervento della Fei avrebbe evitato tutto questo: e sarebbe stato meglio.
16 novembre 2015