Bologna, luglio 2016 – Le amazzoni e i cavalieri dello squadrone azzurro di paradressage hanno ottenuto un grandioso risultato. Ormai definitivo e acquisito. Che non è il recente primo posto nella gara a squadre di Ueberhernn, concorso al quale tra l’altro non erano nemmeno tutti presenti, e nemmeno quello che chi verrà selezionato per le Olimpiadi otterrà eventualmente a Rio de Janeiro il prossimo settembre. No. Il grandioso risultato ormai definitivo e acquisito è quello di aver trasportato una realtà sportiva dalla dimensione soggettiva alla dimensione oggettiva. Da una dimensione personale a una dimensione popolare. Da un circuito chiuso interno a un circuito aperto esterno. Questa transizione vale probabilmente più di mille primi posti e di mille medaglie: perché riguarda non solo loro, amazzoni e cavalieri, bensì tutti noi e anche tutti coloro i quali saranno protagonisti del paradressage prossimo futuro. È la costruzione di un valore inestimabile, per il quale i risultati sportivi sono il mezzo e non il fine: importanti, certo, anzi molto importanti, poiché senza questi non ci sarebbe quello, ma mai come in questo caso la somma del tutto vale più del pregio di ciascuna sua parte.
Il settore paralimpico sta dando all’equitazione azzurra quello che da sempre (o meglio: da una buona trentina d’anni… ) l’equitazione azzurra è andata cercando: vittorie, certo, ma soprattutto protagonisti, storie, simboli, elementi che possano essere valorizzati agli occhi del pubblico generalista oltre che a quelli degli addetti ai lavori. Protagonisti e storie e simboli che in questo caso hanno una dimensione e un valore infinitamente più grandi perché non c’è solo l’aspetto sportivo e agonistico in tutto questo: c’è anche il confronto con la disabilità, la sfida continua che prima ancora di essere combattuta in campo contro gli avversari viene affrontata ogni mattina al risveglio da chi la vive in prima persona. Un tema forte, ovviamente, fortissimo anche per lo spettatore, un tema che ha un impatto emotivo straordinario. Ma uno dei grandi, grandissimi meriti dei nostri atleti, forse addirittura il principale merito, è quello di aver in qualche modo costretto lo spettatore a distogliere lo sguardo da questo aspetto per l’appunto personale e soggettivo per dirigerlo invece su quello prettamente sportivo e agonistico, quindi – come si diceva – pubblico e oggettivo. A pensarci bene questa è una cosa grandiosa. Enorme.
Prendete Sara Morganti: dopo la sua vittoria nel Campionato del Mondo di Caen 2014 è stata più in televisione lei di Matteo Renzi… Ma Sara Morganti è ed è stata indubbiamente l’apripista di un fenomeno che ora sta mostrando i risultati di una crescita larga e condivisa: se le attenzioni prima erano prevalentemente rivolte a lei in quanto campionessa vincente, ora si stanno indirizzando a un gruppo-squadra composto da ben otto atleti e potenzialmente anche da tutti coloro i quali possono o potranno ambire alla maglia azzurra. Non è un caso se ciascuno di loro riferendosi delle prossime Olimpiadi parla della voglia di raggiungere una possibile medaglia di squadra. Di squadra: dunque non io sul podio, bensì noi sul podio. Certo, come poi sempre accade nello sport non basta volere un risultato per poi ottenerlo davvero, ma è altrettanto sicuro che senza volerlo non lo si otterrà mai. Quindi questa consapevolezza comune e condivisa e acquisita rappresenta già un tassello fondamentale. Dire e dichiarare che a Rio de Janeiro si va per tentare di raggiungere un risultato di squadra significa essere consapevoli di rappresentare qualcosa non solo per sé stessi ma anche per i propri compagni e soprattutto per lo sport azzurro, quindi per l’Italia, per lo sport equestre italiano. Ecco quindi il risultato già ottenuto e acquisito: non è importante se a Rio ci sarà o meno questa benedetta medaglia, importante è aver creato le basi e le premesse affinché questo possa accadere. Importante è aver coinvolto tutti noi spettatori e tifosi nella consapevolezza di poter raggiungere quel traguardo: se sarà davvero quello, il traguardo, bene, ma se non sarà quello sarà un altro e poi un altro e poi un altro.
È naturalmente perfino superfluo sottolineare che il merito di tutto questo sta in ognuno dei componenti questo gruppo favoloso. Ma c’è anche un grande timoniere al governo di questo veliero che prende il vento verso Rio de Janeiro: Laura Conz, il tecnico responsabile della squadra azzurra. Laura è una donna speciale. Sotto il profilo della sua formazione tecnica e sportiva lei non nasce in dressage, cosa che le permette di avere una visione molto ampia e panoramica delle cose di cavalli, e che oggi nella sua veste di capo squadra probabilmente le risulta molto utile. Dopo una eccellente carriera giovanile in salto ostacoli e in completo con esperienze di alto livello agonistico internazionale e soprattutto a contatto con alcuni tra i più grandi maestri e uomini di cavalli che l’Italia abbia mai avuto (da Graziano Mancinelli a Lucio Manzin, solo per dirne due), Laura Conz è infine approdata al rettangolo divenendo in breve una delle stelle del dressage azzurro. Ma rimanendo sempre e comunque una donna di cavalli a trecentosessanta gradi, mantenendo i contatti con tutti gli altri settori dello sport equestre pur vivendo in principio tutte le privazioni e i sacrifici che il rito di iniziazione alla specialità del dressage necessariamente impone (per anni a un certo punto di lei si erano perse le tracce, scomparsa sulle montagne della Svizzera presso la scuderia di Christine Stueckelberger in un villaggio dove il luogo più ameno dove poter scambiare quattro chiacchiere con qualcuno era la farmacia… ). Laura Conz è oggi parte fondamentale del fenomeno paradressage azzurro, tanto quanto le amazzoni e i cavalieri che lo costituiscono: è di certo lei che ha coordinato ogni singolo elemento in modo da farne una indispensabile parte del meccanismo. È lei che con le doti tipiche della sensibilità femminile ma allo stesso tempo con la risolutezza e la determinazione di chi bene conosce i meccanismi dello sport ha creato una squadra da un insieme di individui.
Oggi è davvero entusiasmante ammirare il risultato del lavoro svolto da Laura Conz, da Sara Morganti, da Francesca Salvadè, da Silvia Ciarrocchi, da Silvia Veratti, da Alessio Corradini, da Antonella Cecilia, da Federico Lunghi e da quel Ferdinando Acerbi che dopo essere stato uno dei più importanti cavalieri azzurri di completo e dopo aver subito l’incidente che lo ha menomato si è rimesso in gioco in sella con l’entusiasmo e l’intraprendenza di un adolescente al primo innamoramento. Loro, insieme anche alle persone che con loro vivono e lavorano a tutti i livelli ogni giorno, rappresentano un meraviglioso fenomeno dello sport equestre azzurro: un fenomeno del quale andare fieri e orgogliosi, naturalmente. Ma prima di tutto un fenomeno per il quale essere grati e riconoscenti nei loro confronti: se il paradressage azzurro tornerà da Rio de Janeiro con una medaglia tanto meglio, ma per quanto ci riguarda nessuna medaglia sarà più preziosa e importante di quella che è già stata conquistata e vinta.
10 luglio 2016