Bologna, aprile 2016 – Già, chi è Stefano Scaccabarozzi? La domanda è stata posta nel corso di una chiacchierata tra due ragazzi partecipanti al recente Campionato d’Italia di Arezzo. Ed è una domanda che bene rappresenta il modo in cui oggi i giovani vivono il rapporto con il passato del loro e nostro sport. Un dato di fatto è incontrovertibile: i giovani cavalieri di oggi non sanno nulla dei cavalieri di ieri. E se sanno, sanno poco e male, senza essere in grado di contestualizzare: non hanno, insomma, una visione ‘storica’ e panoramica di ciò che è accaduto in campo ostacoli prima che ci entrassero loro. Ma perché? Se un atleta pratica uno sport che gli piace e ne è appassionato in teoria dovrebbe vivere e nutrirsi di tutto quello che riguarda la vita di quello stesso sport, dovrebbe mitizzarne gli eroi, emozionarsi nel leggere o ascoltare i racconti di gesta leggendarie, sognare di esserne lui il protagonista prima o poi, emulare i campioni più straordinari, cercare di capire il perché delle cose. Provate a portare Rivera o Mazzola o Paolo Rossi o Del Piero in un campus di giovani calciatori: si scatenerebbe una ressa; parlate di Tomba ai giovani sciatori, o di Panatta ai giovani tennisti, o perfino di Coppi e Bartali o Moser e Saronni ai giovani ciclisti… Alcuni anni fa un giovane cavaliere italiano, che in quel momento aveva una notevole esposizione internazionale, entrando nella club-house del maneggio coperto delle Siepi a Cervia nel vedere una sfilza di targhe con piazzamenti e vittorie dello Csio di Aquisgrana ha domandato spalancando gli occhi sbalordito e incredulo: «Ma queste chi le ha vinte?». Per fortuna Lalla Novo non era nei paraggi… I giovani cavalieri di oggi sanno chi è Vittorio Orlandi solo perché è il presidente della Fise, sanno chi è Giorgio Nuti perché lui fa gli stage, ma di sicuro non sanno chi è Graziano Mancinelli o Mauro Checcoli, e figuriamoci poi Piero e Raimondo d’Inzeo o i fratelli Oppes o i fratelli Angioni…
Il nostro passato trabocca di favolosi successi sportivi tra titoli e medaglie e campioni che da soli dovrebbero inorgoglire chiunque si infili un paio di stivali anche solo per la prima volta nella vita, e quindi ancora una volta la domanda sorge inevitabile: perché? La risposta più semplice e immediata e soprattutto comoda è la solita: i giovani di oggi sono ignoranti, non hanno interessi, non gli frega niente di niente, pensano solo allo smartphone, alla play, alle chat, non leggono, non scrivono, non vedono, sono maleducati, non hanno rispetto, non sanno stare a tavola, si vestono male etc etc. Oddio: qualcosa di vero in tutto questo c’è, bisogna dire. Ma anche ammettendo che sia tutto vero (e non lo è affatto) i giovani di oggi chi li ha educati? Di chi sono figli? Da dove provengono? Queste sono domande che in effetti possono creare qualche imbarazzo, a dirla tutta: perché quello che viene prima condiziona sempre e comunque quello che viene dopo; il maestro ha sempre maggiori responsabilità dell’allievo circa il risultato dell’insegnamento, cioè l’apprendimento; i genitori sono responsabili di ciò che sono i loro figli più di quanto lo siano i figli stessi (entro qualche limite, diciamo, giusto per non deprimerci troppo… ). Quindi non sarebbe forse corretto fare un po’ di autocritica, più che rifugiarci nella comoda soluzione che ci solleva da ogni responsabilità: i giovani d’oggi sono brutti, cattivi e ignoranti?
Il passato del nostro sport ha prodotto capolavori sublimi ma poi ha avuto una grande colpa: quella di porsi nei confronti del presente con atteggiamento lievemente sprezzante se non proprio ostile, talvolta rifiutando ogni elemento di continuità e appartenenza, disconoscendo paternità e maternità, ripudiando figli e vanificando parentele. Di conseguenza ricevendo dal presente un distacco e una non-considerazione totali, utilizzati come vere e proprie armi di difesa e autolegittimazione. Tutto ciò indubbiamente e storicamente affonda le radici dentro il contesto militare nel quale si è sviluppato lo sport equestre sin dalle origini, laddove gerarchia e anzianità prevedevano fondamentalmente solo un tipo di relazione, cioè quella impostata sul comandare/obbedire: relazione che – intendiamoci – contiene anche molteplici aspetti positivi senza alcun minimo dubbio. Con il trascorrere del tempo e con il venir meno dei legami con la realtà militare e con le organizzazioni militari e, simmetricamente, con l’affermarsi all’interno del nostro sport dei valori e delle modalità della società civile, si è creata una situazione di crisi per cui chi un tempo deteneva una certa supremazia sia formale sia sostanziale non ha più visto tale supremazia riconosciuta dalle nuove generazioni, le quali a loro volta a un certo punto non ne hanno potuto più di sentirsi ripetere in continuazione loro sono capaci e hanno vinto, voi siete incapaci e non vincete mai, loro facevano tutto giusto e voi fate tutto sbagliato… In realtà è molto vero che nel nostro passato ci sono diversi aspetti migliori del loro corrispettivo attuale: ma il problema è di carattere… pedagogico, ossia sta nel modo in cui questi aspetti migliori sono stati tramandati e trasmessi. O meglio: nel modo in cui NON sono stati tramandati e trasmessi. Esibendoli sempre e solo come qualcosa di pregiudizialmente migliore, tali aspetti non sono mai stati recepiti positivamente da chi avrebbe dovuto farlo, anzi: l’esatto contrario. Proprio come a cavallo: se in sella a un cavallo che tira mi metto a tirare anche io è la fine, lui tirerà sempre più di me, e quando cederà – perché cederà – non lo farà con accettazione bensì con contrarietà (per semplificare il concetto).
Oggi quando si parla ai giovani del nostro passato si suscita per lo più indifferenza, fino ad arrivare a irritazione e addirittura rifiuto. Ci sono molti casi personali e soggettivi che in realtà smentiscono sia da una parte sia dall’altra tale situazione, per fortuna: ma se vogliamo parlare di realtà diffusa, di mentalità, di convenzionalità, ebbene le cose stanno tristemente così. È vero: viviamo in un mondo (non quello dello sport equestre: tutto il mondo) in cui la velocità con la quale succedono le cose è tale da farci considerare obsoleto e polveroso perfino l’accaduto del mese scorso, quindi figuriamoci i fatti della seconda metà del Novecento… Sarebbe dunque proprio questo lo spazio di intervento di quella ‘cosa’ che potrebbe risolvere il problema della lontananza, del distacco, della non conoscenza: la cultura. La cultura specifica, s’intende, quella del nostro sport. Ma ancora una volta ecco il problema originario: la cultura si trasmette con profitto quando chi la produce riesce a renderla attraente e accattivante e attuale mentre allo stesso tempo chi la riceve si appresta a farlo con desiderio e piena disponibilità d’animo. Oggi invece le due posizioni sono molto distanti, purtroppo, producendo quel grave difetto – la mancanza di integrazione – che come conseguenza nefasta ha quella di generare un’ignoranza diffusa; i rappresentanti di passato e presente si respingono come due poli opposti, alimentando vicendevolmente i motivi della reciproca ripulsa e in tal modo vanificando qualsiasi possibile apporto di comune arricchimento: il passato si arrocca sempre più intorno al luccichio degli ori del tempo che fu senza accorgersi di quanto di buono esiste nel nostro presente, mentre il presente ignora infastidito il passato senza rendersi conto delle risorse alle quali così rinuncia (ma ricordiamo ancora una volta che il ‘prima’ determina il ‘dopo’, e mai il contrario… ). Alla luce di tutto ciò ecco dunque risuonare in tutta la sua pertinente logica la domanda iniziale: ma chi è Stefano Scaccabarozzi?
2 maggio 2016