Bologna, novembre 2015 – Parliamo di sport, di agonismo, di salto ostacoli. Sapete quanti Gran Premi sono stati disputati nel girone dell’Europa Occidentale di Coppa del Mondo dalla nascita del circuito (1978) a oggi, cioè in trentasette edizioni? Non meno di trecentosettanta, facendo una media di dieci a stagione (alcuni anni sono stati di più, inizialmente qualcuno di meno: in realtà saremo più vicini ai quattrocento). E sapete quanti di questi sono stati vinti da un cavaliere italiano? Uno. Uno solo. Autore dell’impresa Juan Carlos Garcia in sella ad Albin a Bordeaux il 4 febbraio del 2006. Questo per dire che non è affatto scandaloso se a Verona lo scorso 8 novembre – ieri – non abbiamo… vinto: sarebbe stato ben più sorprendente il contrario. Così come sarebbe ingeneroso e fuorviante addossare ai cavalieri di oggi la responsabilità di un risultato negativo: loro certamente un minimo in qualcosa c’entreranno, ma se in trentasette anni il nostro bottino è così miserrimo vuol dire che l’intero sistema salto ostacoli in Italia non funziona, non il singolo cavaliere (senza dire che molti dei cavalieri di oggi nel 1979 non erano nemmeno nati o erano dei bambinetti con il pannolone tra le gambe… ). Del resto non c’è bisogno di questa agghiacciante statistica per rendersi conto che da noi qualcosina non funziona ormai da decenni: lo si capisce anche solo pensando a quante Coppe delle Nazioni abbiamo vinto a Piazza di Siena dal 1977 a oggi (una), quante negli undici anni dello Csio di Modena (nessuna), quante medaglie abbiamo conquistato nei campionati internazionali dal 1972 a oggi (una), eccetera eccetera. Quindi il nostro fallimento agonistico abbraccia come minimo tre decadi e si spalma su un’infinità di nomi di cavalli, di cavalieri, di tecnici, di dirigenti. E dunque la domanda sorge spontanea: come è possibile tutto ciò? Perché? Quanti cavalli abbiamo visto passare in campo ostacoli per i colori dell’Italia? E quanti cavalieri? E quanti presidenti della Fise, tecnici, responsabili, capi, comandanti? Come abbiamo fatto in trenta e più anni a esserci ridotti così? Tutti i protagonisti di questi trent’anni sono i colpevoli, i responsabili, gli imputati? Perché abbiamo sempre pensato che il tal presidente di turno o capo di turno o responsabile di turno avrebbe fatto andare meglio le cose e invece le cose sono andate sempre nello stesso disgraziato modo? Perché ogni anno (ogni anno da decenni… ) si sente dire che i cavalli italiani stanno migliorando e che il nostro allevamento sta migliorando e poi non c’è un solo cavallo italiano (per estremizzare, diciamo) che emerga ad alto livello per quanto buoni possano essere i cavalli italiani? Ha senso dire la colpa è di Tizio o di Caio?
Ovviamente no: il colpevole non è Tizio e nemmeno Caio, tantomeno Sempronio, visto che tutti loro hanno ottenuto, ottengono e otterranno lo stesso identico risultato, pur opponendosi l’uno all’altro e avvicendandosi nel tempo. La sensazione è che sia il nostro mondo nella sua interezza a essere malato: il che potrebbe anche sembrare un modo un po’ qualunquistico per descrivere la situazione, ma probabilmente è proprio così. Chiunque preso e immerso in questo nostro ambiente malsano, litigioso, ricco di denaro e di risorse materiali e povero di buonsenso e di cultura, chiunque finisce per diventare un fallito. C’è chi pensa che il disastro sia cominciato quando lo sport equestre da attività elitaria e di ‘casta’ militare o aristocratica è divenuto popolare e allargato: assorbendo e rispecchiando di conseguenza i vizi e le devianze di una società – la cosiddetta società civile italiana – nella quale c’è chi pensa di poter buttare per terra una cartaccia anche se a un metro c’è un cestino per la spazzatura. C’è chi pensa che per risolvere tutto basterebbe ribadire che a cavallo si monta con il tallone basso e la suola in fuori. C’è chi pensa che chiunque sia al potere (del nostro sport) stia lì per farsi gli affaracci suoi e che quindi basterebbe cambiare i dirigenti per risolvere tutto e che dunque la soluzione sta sempre di là, oltre, in un futuro destinato a rimanere sempre costantemente eternamente futuro. Continuiamo a dire che ci mancano i cavalli: poi i nostri cavalli vengono venduti all’estero e vincono. Continuiamo a dire che i nostri cavalieri sì, sono bravi, però… sai com’è… poca professionalità… pensano solo al loro interesse… sai com’è… poi quando qualcuno di loro se ne va dall’Italia viene additato come esempio di virtù massima come se prima non fosse stato la stessa persona. Allora: quali sono le domande che dovremmo veramente porci? E quali le risposte che veramente dovremmo darci?
Il punto è che non cambierà mai nulla fin tanto che il mondo del nostro sport non farà quel salto di qualità necessario per convogliare tutte le risorse e le energie in un’unica direzione (un esempio terra terra? presto detto: un consorzio per acquistare cavalli da destinare alla prima squadra, tanto per dirne una… ); può sembrare un discorso pomposamente ecumenico, ma allo stato delle cose è l’unico discorso possibile: visto che in passato non ha mai funzionato né tutto né il contrario di tutto. E’ un discorso generico, è anche un discorso che vuol dire nulla – o molto poco – se non si capisce davvero fino in fondo che il cambiamento deve essere attuato non solo dalle istituzioni che guidano il nostro sport ma anche da ciascuno di noi singolarmente e individualmente. Nella vita e nell’attività di tutti i giorni. Altrimenti non ci sarà mai alcun presidente, tecnico, responsabile, capo che riuscirà davvero a modificare la realtà. Quello a cui si deve puntare è ottenere risultati che scaturiscano da un sistema consolidato: un sistema per tutto, non soltanto un sistema relativo al solo montare a cavallo, cercando prima di tutto di capire che lo sport agonistico è di per sé qualcosa di selettivo: non si può accontentare tutti. Le classifiche sono selezione: c’è un primo, un secondo, un terzo… La politica dell’accontentare tutti ha partorito probabilmente una enorme crescita di numeri ma zero qualità (in media, s’intende). Abbiamo una quantità di campionati d’Italia da far venire il mal di testa anche al più scientifico degli addetti ai lavori: prendete il dressage e impazzirete… e per il salto ostacoli non è meglio. Ma perché? Solo per poter far dire a ‘enne’ persone – bambini, ragazzi, adulti e anziani – io sono campione d’Italia? Anche se ho gareggiato talvolta perfino da solo contro me stesso? Ma ha senso tutto questo? Abbiamo una quantità impressionante di istruttori: probabilmente più del numero di centri ippici esistenti sul territorio (forse no, ma è per dire… ); istruttori nati e sbocciati come funghi nel sottobosco dell’ignoranza spesso non solo generica, ma anche specifica. Ma l’istruttore non deve essere anche un educatore, e quindi come tale saper trasmettere valori etici, culturali, comportamentali oltre che tecnici, sportivi e agonistici? E un personaggio del genere lo si crea così, su due piedi, in quattro e quattr’otto? Abbiamo i campi ostacoli e i campi di concorso tra i migliori d’Europa senza alcun dubbio e organizziamo eventi agonistici strapieni di concorrenti e stravuoti di spettatori: è normale, è davvero normale considerare un concorso ippico come una noiosa riunione di addetti ai lavori? Questo fa bene allo sport? Serve per richiamare sponsor e televisione e giornali e interesse di categorie normalmente estranee al mondo dei cavalli? Abbiamo una quantità enorme di ragazzine (soprattutto) e di ragazzini che montano a cavallo e che arrivano in concorso quando a mala pena sanno battere la sella: è normale? E’ giusto? Non è forse questo il miglior modo per inserire nel circuito sportivo criticità se non addirittura crisi per le quali bisognerà poi trovare soluzioni palliative che la maggior parte delle volte consistono nello spendere più e ancora più soldi senza effettivamente riuscire a correggere ciò che è sbagliato in partenza e alla radice?
Sono solo alcune delle tante domande alle quali bisognerebbe dare delle risposte consapevoli, sincere e responsabili da parte di tutte le componenti coinvolte nella vita del nostro sport. Risposte che tengano conto solo ed esclusivamente dell’utilità in funzione del risultato finale: e non del compiacimento del maggior numero di persone possibili. Il compiacimento altrui serve forse ad allargare lo sport: ma non a sollevarlo.
9 novembre 2015