Bologna, marzo 2016 – Il territorio esplorabile più vasto del mondo (e forse qualche volta anche inesplorabile, chissà… ) non è un’area geografica, no: è la psiche umana. Elena Montorsi, psicologa ed esperta di psicologia dello sport (oltre che amazzone e donna di cavalli), in questo senso è una esperta e irriducibile esploratrice capace di conquistare anche le zone più impervie e selvagge…
Dottoressa Montorsi, è giusto parlare di mental coaching a proposito degli atleti cavalieri?
«Certo. Nella preparazione mentale a livello sportivo sicuramente dobbiamo partire dal presupposto che qualunque movimento del nostro corpo trova origine nel cervello. Però spesso quando ci alleniamo non teniamo conto del fatto che se la mente non è al meglio delle sue possibilità nemmeno l’allenamento produrrà il risultato migliore. Quando poi questo concetto lo trasferiamo al momento della gara scopriremo che il difetto nel risultato è spesso dovuto a difficoltà di concentrazione o di gestione emotiva, più che a errori puramente tecnici. O per meglio dire: l’errore si concretizza a seguito di un fatto tecnico che tuttavia viene prodotto da un problema di carattere psicologico».
Quindi il mental coaching è volto alla risoluzione di questa serie di problemi.
«Sì, ma non solo. Oltre al lavoro su ciò che non funziona, una parte importante del mental coaching è dedicata al lavoro sul miglioramento di ciò che già funziona, quella che in gergo viene definita ottimizzazione delle risorse mentali. C’è chi è già molto bravo nel raggiungere la concentrazione ideale, ma può scoprire di poterlo fare perfino meglio. C’è chi è già molto bravo nell’attivazione psicofisica ma può divenire ancora più veloce nel prendere le giuste decisioni… Non dimentichiamo che lo sport equestre richiede la capacità di ragionare e agire nello spazio di centesimi di secondo: più si è veloci e meglio è, naturalmente, e questa cosa si può allenare».
E questo allenamento prevede che una buona parte del lavoro si svolga a casa o anche in concorso?
«Entrambe le situazioni. E a proposito di concorso: c’è poi un’altra cosa che si può allenare, ed è la capacità di visualizzare il percorso prima di affrontarlo in gara. Si chiama ‘imagery’: per affrontare un rettangolo si può cominciare a lavorare in questo senso molto tempo prima di entrare in gara ovviamente, mentre per una gara di salto ostacoli o per un cross invece si deve mettere in atto questa capacità di visualizzazione solo poco prima di entrare in campo».
Ma la visualizzazione del percorso in… anteprima, diciamo, come funziona: cosa deve vedere e cosa deve pensare il cavaliere?
«Nello sport in generale esistono due tipi di tale visualizzazione. Una in cui io mi vedo dall’esterno, come se stessi assistendo a un video con una persona diversa da me come protagonista; l’altra in cui il protagonista sono io stesso. Nel caso del nostro sport funziona solo il secondo tipo di visualizzazione, quella in cui io mi sento a cavallo come attore di ciò che sta accadendo. Vedo le due orecchie del cavallo davanti a me e sento le azioni che il mio corpo deve fare, la risposta del cavallo, vedo il percorso di salto o di cross, o il grafico in rettangolo. Questa visualizzazione preventiva mi permette di affrontare la gara in uno stato di grande concentrazione: più è chiaro il mio tracciato o il mio grafico e il modo in cui lo devo sviluppare perché l’ho già vissuto nella mia mente, e più sarò in grado di gestire quegli inevitabili imprevisti che mi si presenteranno strada facendo, per poi rientrare in quello che era il mio originario progetto di gara».
Però questa è forse una problematica più tecnica che psicologica, no?
«Io non dico al cavaliere quello che deve fare tecnicamente: io gli insegno ad applicare la maniera corretta per andare a sentire la gara che dovrà fare, in modo da trovarsi dentro una bolla di concentrazione massima una volta che entrerà nel campo di gara ed essere quindi al meglio per mettere in pratica quello che da solo o con il sostegno del suo tecnico avrà deciso in termini di condotta tecnica».
Ci sono differenze nello svolgimento del suo lavoro sugli atleti a seconda della specialità da loro praticata?
«Ogni disciplina prevede una preparazione mentale a sé stante, particolare: per tutte il lavoro dello psicologo prevede una serie di strumenti comuni ma poi ci sono le variabili legate appunto al tipo di specialità oltre che al tipo di binomio».
E quali sarebbero questi strumenti?
«Sono esercizi che servono ad aumentare la concentrazione e ad abbassare il livello di emotività quando è eccessivamente alto. Quindi esercizi di respirazione, esercizi di allenamento mentale che consistono anche nella imagery di cui ho detto. Poi ci sono esercizi specifici che servono ad aumentare o diminuire l’attivazione del fisico: per esempio nel caso di un battito cardiaco troppo elevato a causa di un livello eccessivo di emozione, oppure quando è eccessivo il livello di apatia».
Esercizi che vengono insegnati in apposite sedute oppure durante i momenti di gara?
«I cavalieri devono imparare tutte queste cose a casa per poi saperle mettere in pratica in gara. In genere si tende a insegnare al cavaliere a essere il più possibile indipendente: si fa un percorso insieme, si continua a lavorare insieme ma al momento del dunque il cavaliere deve essere in grado di fare da solo».
Esistono temi comuni alle varie specialità da un punto di vista di problematica psicologica?
«Parlerei piuttosto di difficoltà di concentrazione legata al tipo di specialità. Per esempio nel volteggio gli atleti eseguono sempre lo stesso esercizio mentre in salto ostacoli ogni volta il percorso da affrontare è diverso: in termini di modalità di concentrazione questo fa la differenza. Il tipo di disciplina influenza il tipo di preparazione mentale che io conduco sull’atleta. Invece un tema comune, trasversale, e su cui in generale ho maggiormente lavorato, è la connessione del binomio, quindi la capacità di ascoltare il cavallo da parte del cavaliere. Spesso i cavalieri sono talmente concentrati su loro stessi che si dimenticano di ascoltare veramente il loro cavallo, pur essendo in teoria molto ben consapevoli della necessità di farlo. Dimenticarsi dell’altro rende le cose anche più faticose».
Ma è ovviamente possibile che le reazioni emotive e psicologiche di un cavaliere differiscano a seconda del cavallo che monta, giusto?
«Certo, assolutamente sì. Le reazioni emotive si basano molto sul rapporto di fiducia che il cavallo ispira al cavaliere, a quello che il cavaliere pensa del proprio cavallo».
E quindi per lei, amazzone e donna di cavalli, può essere molto facile leggere la personalità del cavallo o dei cavalli con i quali i suoi assistiti si devono mettere in relazione…
«Sì, certo, per me è più facile lavorare con i cavalieri rispetto ad altri colleghi che con i cavalli non hanno mai avuto nulla a che fare. Io posso probabilmente capire meglio quello che i cavalieri mi dicono, capisco anche molto bene cosa possa voler dire fidarsi di un cavallo oppure non fidarsi di un cavallo. È un rapporto psicologico molto complesso e articolato quello che si instaura tra un cavallo e un cavaliere, spesso non determinato esclusivamente dalle potenzialità di quello stesso cavallo».
Ma quando lei lavora con un cavaliere studia e valuta anche il cavallo con il quale quel cavaliere si deve rapportare oppure si basa solo su quello che dal cavaliere le viene detto?
«Mi baso solo sulla sensazione del cavaliere, che è quella fondamentale. Ascolto le parole del cavaliere e cerco di trovare delle soluzioni senza ovviamente incrementare i dubbi. Io non posso fornire soluzioni tecniche, però insegno a capire che una soluzione esiste. Aiuto a far riflettere il cavaliere in questo senso. Una cosa molto utile è guardare i video e valutare la postura del cavaliere: la mascella, le spalle, se il cavaliere cambia da un cavallo all’altro rispetto alla tensione che ha nel corpo. Dire che con un cavallo di cui non si ha fiducia si è più tesi e con uno di cui ci si fida si è più rilassati è come dire di aver scoperto l’acqua calda: in realtà il punto vero è che se sono più teso sono anche meno rapido nelle mie reazioni mentali, quindi è su questo che bisogna lavorare molto».
Come è stata percepita prima e vissuta poi la sua figura professionale da parte del mondo del nostro sport?
«Intanto cominciamo con il dire che tale figura esiste non certo da oggi. Nonostante io fossi piccola ricordo benissimo quando con i nostri cavalieri lavorava la dottoressa Bruna Rossi, per esempio durante il Campionato del Mondo di L’Aia quando il c.t. della squadra azzurra era lo stesso Henk Nooren di oggi, uomo che è sempre stato molto sensibile e attento nei confronti del rapporto tra psicologia e sport. Io faccio questo lavoro con gli atleti cavalieri da quasi otto anni e devo dire che con il tempo l’interesse nei confronti della mia figura professionale è nettamente cresciuto. Prima c’era molto sospetto nei confronti di questa figura, soprattutto c’era l’idea che lo psicologo dello sport dovesse andare sempre e solo in gara, quando in realtà come per l’allenamento fisico bisogna lavorare a casa per poi riscontrare i risultati in gara. Lo psicologo non arricchisce le competenze tecniche dell’atleta: però lo aiuta a essere più pronto nel recepire i messaggi, più rapido nell’utilizzare le risorse personali, più efficace nella valorizzazione della qualità tecnica personale».
È riuscita a determinare effetti positivi sensibili sugli atleti con i quali ha lavorato?
«Sì certo, ma la cosa più importante è che li abbiano riscontrati loro, gli atleti, come in effetti è accaduto. Io mi rendo conto di quando ci può essere un miglioramento, ma la cosa fondamentale è che questa consapevolezza la raggiunga il cavaliere stesso. E in effetti vari cavalieri che io seguo hanno confermato di aver percepito nettamente questa cosa, grazie al lavoro con me. In generale tutti coloro i quali credono nel lavoro con lo psicologo poi hanno dei miglioramenti… ».
Uno dei presupposti di partenza sarà quindi la disponibilità incondizionata da parte del suo interlocutore…
«Più che altro all’inizio deve esserci curiosità. La cosa importante è che la persona sia curiosa, che dica dentro sé stessa forse c’è qualcosa sulla quale io posso andare a lavorare e che non so cosa è, altrimenti ci avrei già lavorato da solo, invece ho bisogno di un’altra figura che mi faccia capire o vedere delle aree che io non riesco a vedere. Poi sulla curiosità si lavora. Invece sulla negazione o sulla classica frase ‘io non ne ho bisogno’ si può certamente lavorare, ma è tutto molto più difficile. Con i ragazzini mi è capitato spesso di sentirmi dire io non ne ho bisogno, ma alla fine la maggior parte comunque qualcosa a casa se lo portava: l’esercizio per la concentrazione da fare a scuola, la respirazione per calmarsi… Anche perché quello che noi impariamo nella concentrazione sportiva poi lo rimettiamo nella vita di tutti i giorni, e questo vale per chiunque».
Ci sono dei personaggi che lei potrebbe indicare come esempi di riferimento per spiegare come ha lavorato e con quali risultati, oppure non si può?
«Io sono soggetta al segreto professionale ovviamente, ma c’è un cavaliere che ha pubblicamente parlato di questo ed è Luca Moneta. Lui prima di partire per la finale della Coppa del Mondo l’anno scorso a Las Vegas ha dichiarato pubblicamente quali sono stati i benefici che ha ottenuto grazie al lavoro svolto con me».
Ovviamente gli obiettivi da raggiungere varieranno da persona a persona…
«Sì, ma in ogni caso il traguardo comune per tutti è il raggiungimento di quello che in gergo tecnico chiamiamo stato di grazia. Si pensa spesso che sia uno stato magico che capita solo poche volte nella vita. In verità quello che si è studiato negli Stati Uniti e in Australia, dove sono all’avanguardia sotto questo punto di vista, è che lo stato di grazia è un obiettivo raggiungibile grazie al lavoro. Non arriva in gara, bisogna costruirselo prima in campo prova, con tutta una serie di ‘dimensioni’ come concentrazione, obiettivi chiari, percezione del feedback che si riceve dal cavallo, capacità di rimanere insensibili al cospetto delle critiche altrui dato che molto spesso nello sport professionistico il giudizio dello sponsor, della federazione, del tecnico possono incidere negativamente sulla prestazione. Quindi bisogna lavorare su tutti questi elementi per andare alla ricerca dello stato di grazia, la dimensione ideale nella quale esprimere sé stessi. Ovviamente lo stato di grazia è molto più facile ottenerlo nel momento in cui sento che il cavallo è con me, attivo anche lui nel dare il suo meglio».
E dunque risulta fondamentale la collaborazione tra tecnico, cavaliere, psicologo…
«Più stretta è la collaborazione e meglio si lavora per il benessere del cavaliere; più il cavaliere si sentirà sicuro e più facilmente esprimerà la sua migliore equitazione, e quindi migliori saranno i risultati. Anche perché dobbiamo prendere in considerazione il fatto che quando un atleta funziona è perché l’intero suo team funziona, e tutte le parti di questo team devono essere il più possibile in comunicazione. Un caso molto attuale di ciò è dimostrato dalla dichiarazione di Steve Guerdat subito dopo aver vinto al finale di Coppa del Mondo quando ha voluto come prima cosa ringraziare il suo team, al sua squadra, come per dire io vinco grazie a tutti loro, non solo perché sono bravo. Quindi da questo punto di vista se lo psicologo dello sport riesce a collaborare con il tecnico i risultati per il cavaliere saranno indubbiamente migliori. Ma non solo, io lavoro molto anche con gli istruttori e i genitori: sappiamo bene quanto la figura del genitore possa influire positivamente o negativamente sull’esito della prestazione sportiva dell’atleta giovane».
Attualmente lei collabora anche con la federazione o solo con atleti a titolo privato?
«Una collaborazione con la federazione l’ho avuta in passato: l’anno scorso con la Fise ero al Campionato d’Europa di Aquisgrana seguendo i cavalieri del reining, del volteggio, qualcuno del salto ostacoli, del dressage… Quest’anno seguo un discreto numero di cavalieri professionisti sia in Italia sia all’estero che si rivolgono a me privatamente. Estero non perché io mi muova, ma perché c’è la possibilità di lavorare via Skype per garantire questa collaborazione, questo sostegno psicologico anche quando si è fisicamente lontani. Faccio un esempio: seguo un atleta che deve prepararsi in vista di Rio e che si trasferisce per un mese in un altro continente; ovviamente io non posso spostarmi ma altrettanto ovviamente non si può sospendere il lavoro, ecco quindi che la tecnologia ci viene in soccorso».
Lei sta lavorando a un libro che tratta appunto della preparazione mentale nello sport equestre.
«Sì, si basa sulle esperienze che ho vissuto nelle varie specialità dello sport equestre che ho seguito nel corso della mia carriera, sia a livello privato sia a livello federale, andando ad approfondire tutte le tematiche che caratterizzano la psicologia dello sport».
Un lavoro che si annuncia molto interessante, quindi.
«Speriamo. Lo decideranno i lettori!».
1 aprile 2016