Mercoledì 2 aprile 2014 – Chiudo gli occhi. Lo faccio davvero. Ricordo. Una mano sul legno chiaro di un grande tavolo. Una luce morbida, fresca, luminosa, tranquilla che scende da due lucernari sul tetto. Un uomo serio e sorridente insieme, vestito di verde, ma che mi sembra soprattutto sprigionare un colore bianco morbido, come quella luce che scende dal lucernario. Il soffitto è spiovente, lo vedo alto sopra di me e lo sento che scende dietro di me. Davanti a me c’è il solito piccolo microfono grigio appoggiato al tavolo, che questa volta rischia un po’ meno di essere buttato all’aria. Anche perché Mauro Checcoli non gesticola tanto quanto Enrico d’Inzeo. Rispetto a lui, Checcoli è più tranquillo e più vivace, parla in modo molto più chiaro, anche se con un ritmo più veloce (sono già preoccupata per come farò a trascrivere questa intervista, ci metterò un mese!).
Siamo a Bologna appena fuori dall’autostrada. A un certo punto il navigatore ci fa girare a destra, abbandonare la grande strada, imboccarne una di quelle che portano dalle zone industriali ai centri cittadini (quindi un po’ bruttine, grigie, anonime e fredde) e ci porta in mezzo a un prato verde con fiori bianchi e gialli. Ci fermiamo a un piccolissimo passaggio a livello, passano tre piccoli treni e dobbiamo quindi aspettare lì abbastanza tempo. Sembra proprio che queste sbarre rosse e bianche segnino un confine: dietro di noi la città, oltre le rotaie una piccola campagna cittadina. La strada poi gira a sinistra. E poi ancora a sinistra. Varchiamo un cancello semplicissimo ed entriamo in un giardino con alcuni alberi, sotto ai quali c’è un parcheggio in ghiaino con molta ombra. Alle nostre spalle una casa un po’ strana, con i mattoni a vista tipo quelli di un casale di campagna. Ma non si tratta di un casale. Non si capisce benissimo come sia fatta, che tipo di casa sia, come classificarla. Finalmente capisco: non è una casa, ma un ufficio, o meglio uno studio. Mauro Checcoli, ora ricordo, non è solo uomo di cavalli, ma anche ingegnere e architetto e questo è il suo studio. Fuori mattoni e dentro legno. Come dicevo, questo è un posto di luce serena, dove si sta bene e dove anche i suoni sono morbidi e tranquilli. Entriamo e saliamo una scala in ferro con ringhiera in legno (perfetto – penso – perché le mani devono toccare cose calde e morbide e non freddo ferro tagliente). Poi ci sediamo nella sala riunioni dello studio di Mauro Checcoli. Lui è davanti a me, sulla sinistra, mentre Umberto è davanti a lui, quindi di fronte a me, ma un po’ a destra. Il tavolo, tra me e loro, stabilisce quella distanza che mi mette a mio agio, che mi permette di ascoltare e di immaginarmi le storie che avrei sentito. Per tutto il tempo non dico nemmeno una parola: c’è il microfono a mettermi un po’ in soggezione, e poi c’è Mauro Checcoli a mettermi completamente in soggezione… Cioè, anche se mi verrebbe quasi da parlargli normalmente, poi mi vengono mente le cose incredibili che ha fatto… e io sono qui che le ascolto come se fossero normali. No – in effetti non mi sembrano affatto normali e infatti sono ammutolita.
Ma nel mio silenzio ho fatto alcune riflessioni… Sto incontrando delle persone che rappresentano la nostra equitazione. Sono loro – Mauro Checcoli, i fratelli d’Inzeo, Vittorio Orlandi, Graziano Mancinelli, ma anche Giorgio Nuti, che incontreremo la prossima settimana, Filippo Moyersoen, Gianluca Palmizi e tutti gli altri: sono loro la nostra storia. E conoscono anche la storia precedente, quella che sta prima di noi, quella che potrebbe dare il senso all’oggi, quella che non possiamo perdere. E non riesco a non pensare ai cavalieri che scrivono le pagine della storia di oggi. Anche se non stanno vincendo medaglie olimpiche, sono loro gli attori di quello che succede, e questa consapevolezza dovrebbe renderli più responsabili e più attenti. E non solo i cavalieri: siamo tutti noi i protagonisti, a vario titolo e con vari ruoli, siamo noi i responsabili della qualità del nostro tempo. Chissà, forse qualcuno – un domani – andrà a cercare, ad ascoltare e a intervistare i protagonisti di adesso per conoscere la storia di oggi e per conservare le cose da non perdere. Insomma, ascoltando Mauro Checcoli penso: “Ma vuoi che non ci sia anche tra di noi qualcuno all’altezza del nostro passato… ? Certo che c’è! Vogliamo parlare di Emanuele Gaudiano, che è tra i primi trenta al mondo (27° in questo momento – ho letto prima in una news della Fise)? E di Vittoria Panizzon, che per il completo è la numero tredici al mondo e che l’anno scorso è stata per lungo tempo la numero otto? Per non parlare di Luca Maria Moneta e dei suoi risultati e di come li ottiene e di quanto sia apprezzato all’estero. E di Giulia Martinengo, vogliamo parlare? E di tutti quelli che si occupano di cavalli giovani e di giovani cavalieri… ? A me vengono in mente le persone che conosco, naturalmente… Cristiano Mion e Elliott, Giovanni Consorti e Luce del Castegno, Cristiano Cividini e gli attacchi, Lucia Vizzini e Quinta Roo, e Carlo Mascheroni. E Filippo Bologni? Ed Emanuele Bianchi? E tantissimi altri giovani: Andrea Campagnaro, Melissa Ambrosetti, Neri Pieraccini, Guido Franchi, Alice Campanella, Lucia Berni, Alice Redaelli, Leonardo Tiozzo, Valentina Remold, i fratellini Lunardon. Oddio! E Valentina Truppa… ? Per poco me la dimentico… E Anna Cavallaro? E Stefano Fioravanti? E Matias Alvaro? Cielo – e Sara Morganti, dove la mettiamo?”. Li scrivo tutti così, alla rinfusa, in disordine di disciplina, di età, di sesso, di risultati. Ma ci sono e sono tanti, molti di più di quelli che ho citato. Non posso non pensare che un giorno li rimpiangeremo, mancheranno a chi si affaccerà a ciò che ci sarà dopo di loro e ricorderà quando erano loro, la nostra storia. Quindi, sarebbe bello parlare di loro e di quanto siano bravi, invece che dire sempre cose come “oggi non abbiamo i cavalieri” o che “non abbiamo i cavalli… ”. In fondo anche gli uomini (e le donne) che ci raccontano oggi le loro avventure sportive di ieri, come Mauro Checcoli, partivano senza sapere nemmeno a che punto potevano essere rispetto agli stranieri che avrebbero poi incontrato. E tornavano con medaglie su cui nessuno avrebbe mai scommesso… Non tutto attorno a loro era ‘di rose e di fiori’… E nel libro Umberto tutto questo lo racconterà. Ma quello che voglio dire è che non dobbiamo abbassare tutto il nostro presente a quanto c’è di negativo, ma caso mai alzarlo a quel (tanto) che c’è di positivo…
I racconti. Mauro Checcoli ne ha raccontate tantissime di cose, durante le due ore passate insieme, ma la storia che mi torna in mente è quella di lui che alla fine del 1971 o all’inizio del 1972 arriva ai Pratoni del Vivaro per collaborare con i tecnici federali nel lavoro con i giovani cavalieri, quelli più promettenti, quelli che andavano ai Pratoni e vivevano lì alcuni mesi per la preparazione agonistica. A ciascuno di loro veniva assegnato un ‘cavallo federale’, cioè acquistato dalla federazione che contribuiva così al raggiungimento del successo sportivo. Mauro Checcoli arriva e anche a lui viene affidato un cavallo, un certo Rosario. Checcoli lo monta e inizia a vedere sorrisini, a sentire battutine, qualcuno gli chiede: «Ah, monti Rosario eh… ?». Insomma: c’era qualcosa di strano nell’aria, ma lui non riusciva a cogliere il senso di questa sorta di movimento attorno a sé, una specie di rumorino mal celato. Già, perché nessuno gli aveva detto che «Rosario aveva questa bella abitudine: scendendo dalla scuderia dei Pratoni verso i prati di sotto era perfetto», racconta Checcoli, «ma come tu arrivavi in fondo e giravi la testa verso la scuderia lui si metteva su due gambe e su due gambe ritornava verso casa. Non c’era verso, non lo montava più nessuno!». Ma Mauro Checcoli questo appunto non lo sapeva e così inizia a scendere tranquillamente verso il campo di lavoro. Lungo la strada nota qualche testa spuntare da dietro le siepi, gente che sbircia. Ma lui continua a scendere «diciamo alla Michel Robert», racconta, «due carezze, due chiacchiere… cercando di fare amicizia con il cavallo… Nessuno mi aveva detto niente del comportamento di Rosario. Si volevano divertire… ! E io vado con questo cavallo… sai quando monti un cavallo nuovo, specialmente un purosangue? Cerchi di stabilire un dialogo, e lo stabilisci con la tua posizione in sella, non con la mano, con la posizione in sella. Per cui fai capire al cavallo che tu sei con lui, che sei una parte di lui e ti metti nel modo che ci hanno insegnato e cioè molto inforcato, con il ginocchio che scende in profondità, una presa gentile di tutto l’arco delle gambe sul cavallo e ti metti con lui, chiudi gli occhi e ti adegui ai suoi movimenti… E ci vuole qualche minuto dalla scuderia per andare fino in fondo dove si lavorava in piano allora. E… non so com’è, questo cavallo capì e apprezzò il fatto che io cercassi di diventare amico suo, di farmi accettare da lui, e non mosse coda, non fece nulla, lavorò tranquillo. E poi tornando in scuderia ogni tanto si agitava un pochino ma… un passo, due carezze, due chiacchiere, gli fai mangiare un po’ di erba e poi lo riprendi, ti rimetti a posto, ti fai accettare e poi… e poi ricominci in sella… Rosario sembrava quasi un cavallo vecchio, un cavallo esperto… “Ma come hai fatto con ‘sto cavallo?”, mi chiedevano… Niente… cosa dovevo fare? Il cavallo era perfetto, sapeva fare tutto, cavallo formidabile!».
E se qualcuno è curioso di sapere come mai di questo cavallo Rosario non si è sentito parlare un granché… beh: due mesi prima delle Olimpiadi, dopo aver fatto un ultimo lavoro perfetto, fu lasciato libero in un prato. E in quel prato trovò l’unico sasso che c’era, ci fece sopra un po’ di capriole e si fratturò una vertebra dorsale, e quindi «l’ho perso… il cavallo… », conclude Checcoli con parecchia amarezza nel cuore.
27 marzo 2015