Amedeo Guillet, che faceva la guerra per come voleva fosse la pace
Un cavaliere vero, non solo per la correttezza in sella ma anche per quella verso i suoi avversari: era Amedeo Guillet, morto il 16 giugno del 2010 a 101 anni
Amedeo Guillet su Sandor con i suoi Spahys, Etiopia 1936 - foto d'archivio
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Bologna, 18 giugno 2021 – «Si fa la guerra per come si vuole che sia la pace», scriveva sir Winston S.Churchill.
E Amedeo Guillet, seppure dall’altra parte dello schieramento bellico, la pensava allo stesso modo: come ogni galantuomo, del resto.
Ma chi era questo ufficiale italiano di cui due giorni fa, il 16 giugno, ricorreva l’undicesimo anniversario della morte?
Ci sarebbero tante cosa da raccontare sul comandante Guillet, una lunga vita di avventure: cento anni di vita unica, un secolo intero.
Ma Amedeo Guillet ha un dono speciale, che ci può aiutare a riassumere una così lunga storia: perché lui è sempre stato un perfetto cavaliere, nel senso vero del termine.
Nato il 7 febbraio 1909 a Piacenza, da nobile famiglia piemontese che aveva già dato molti fedeli ufficiali ai Savoia, Amedeo monta molto bene sin da ragazzo.
Indeciso tra la carriera di musicista e quella militare sceglie quest’ultima, ed entra in Accademia a Modena per uscirne sottotenente di cavalleria nel 1931.
Le prime fiamme a ornare il bavero nero della sua uniforme saranno quelle cremisi del 13° Reggimento Cavalleggeri di Monferrato, e dopo il periodo di perfezionamento alla Scuola di Applicazione di Cavalleria a Pinerolo viene scelto dal colonnello Francesco Amalfi (allievo diretto del capitano Caprilli, e che avrà in seguito una grande influenza sul giovane Paolo Angioni) per rappresentare l’Italia ai giochi olimpici di Berlino.
Giovane, brillante, introdotto nella migliore società e dotato del fascino di ogni atleta di successo: ma un vero cavaliere avrebbe potuto partecipare alla vita mondana mentre altrove si combatteva?
Ovviamente no, e Amedeo lascia il suo posto in squadra (e un cuore che palpitava per lui a Budapest, dove si era svolta una parte della preparazione olimpica: quello di Maria, una figlia dell’Ammiraglio Alexander Horty) per fare il suo mestiere di soldato.
Comincia la campagna di Abissinia, Amedeo è con un reparto di Spahis in Libia. Vive ogni occasione che gli viene data come un modo per esercitare le più belle qualità che ogni cavallo insegna da sempre al suo cavaliere.
La correttezza, la lealtà, il rispetto, la sensibilità, il coraggio: verso il suo Re, verso i suoi uomini, verso gli avversari Amedeo si comporterà sempre allo stesso modo, seguendo gli ordini più duri e inevitabili, quelli che vengono da dentro un cuore pulito che non ama compromessi, vigliaccherie o scorciatoie.
Dopo le leggi razziali promulgate in Italia nel ’38 si farà un punto d’onore nell’arruolare nei suoi reparti gli ebrei etiopici, i falascià.
La sua forza sarà il legame fortissimo che stabilirà coi suoi uomini, fino a milleduecento quelli che formeranno la sua Banda a Cavallo Amhara, montati su cavalli berberi, pony Dongolai e cammelli.
Impara l’arabo e i dialetti usati dagli indigeni che formano i suoi reparti, studia le loro convenzioni sociali e riesce a capirne aspirazioni e desideri.
Li rispetta, trattandoli non come selvaggi senza diritti ma come persone.
Ne verrà ampiamente ripagato: le popolazioni locali non lo tradiranno nemmeno quando gli inglesi mettono sulla sua testa una taglia di mille sterline oro, e lui non ha un soldo in tasca per la paga dei suoi uomini.
Anche le tribù che avevano combattuto contro Amedeo non aiuteranno mai gli inglesi a scoprirlo, perché questi erano comunque estranei invasori.
Mentre Guillet era diventato Cummandar-es-Shaitan, il comandante Diavolo: uno che viveva, combatteva e pregava come loro.
Rimarrà fedele agli ordini ricevuti, anche quando saranno quelli stupidamente autolesionisti del governo Mussolini che ordinerà un attacco contro i territori controllati dagli inglesi in Africa Orientale.
Questi avevano alleggerito ella loro presenza tutta l’area convinti che la battaglia sarebbe stata data sul mare, unico vero punto di forza italiano vista l’efficienza della Regia Marina.
Dopo la provocazione reagiscono non solo difendendo la propria zona e richiamando nuove forze ma anche sfondando nelle colonie somale, fino alle battaglie di El Alamein nel ‘42 che saranno il primo, grande colpo messo a segno dai britannici contro tedeschi ed italiani.
A Cheren Guillet affronterà la Gazelle Force britannica con due cariche epiche, i suoi cavalli contro i Mathelda inglesi da 40 tonnellate.
Qui perse il suo più caro amico, il tenente Renato Togni che con trenta «dei suoi marescialli» come scrisse scherzosamente nell’ultimo pro-memoria a lui diretto, caricò gli inglesi per dar tempo al resto della Banda di riorganizzarsi ed evitare l’accerchiamento.
Togni si stava sacrificando consapevolmente: morirà nella carica, gli inglesi gli resero gli onori sul campo e gli italiani conferirono alla sua memoria la Medaglia d’oro al Valor Militare. Cavalli, sciabole, pistole e bombe a mano contro carri armati e mitragliatrici: eppure riuscirono a ritardare di quasi due giorni il movimento dei reparti inglesi.
Quando Mussolini ordina agli italiani di arrendersi e ritirarsi dall’Eritrea Guillet si toglie la divisa e comincia la sua guerra privata per danneggiare gli inglesi ed alleggerire la loro pressione sulle forze dell’Asse in Nord Africa: attacca i reparti isolati, mina ponti, taglia linee telefoniche.
Con lui una piccola parte delle sue Bande e ovviamente Sandor, il suo cavallo berbero.
Era uno stallone di quattro anni proveniente dalla Tunisia quando Amedeo, appena arrivato in Libia nel ’35, lo nota in mezzo a tanti altri: lo compra e comincia a lavorarlo.
Avrebbe voluto una cavalla da poter chiamare Maria, la sua fiamma ungherese di allora ma è rimasto colpito dai movimenti e dalle belle proporzioni di questo piccolo grigio dagli occhi intelligenti e lo battezza col soprannome del padre di lei, Sandor appunto.
Partecipa alla guerra di Spagna, nel ’39 è in Italia e si fidanza con la cugina Beatrice: ma ci sono le nuove leggi contro gli scapoli, gli avanzamenti di grado sono concessi solo agli ufficiali sposati ed Amedeo, per evitare equivoci sulle sue intenzioni e sul suo amore, non la sposa e torna in Africa per guadagnarsi i gradi sul campo.
Ritrova Sandor, ancora per due anni sembrano davvero destinati a rimanere insieme: fino a quando nell’ultimo scontro della sua banda una pallottola colpisce l’ascaro che tiene il cavallo per la briglia. Amedeo stava combattendo a piedi come i suoi, il grigio scappa spaventato dagli spari e viene fermato dagli inglesi.
Lo prenderà in consegna proprio l’uomo che da mesi insegue Guillet e che cercherà inutilmente di catturarlo o ucciderlo, il maggiore Max Harari.
Amedeo patisce da tempo di una ferita al tallone, una volta perduto Sandor sa di non avere più possibilità.
Lascia la sua compagna abissina, Khadija, e raggiunge lo Yemen, territorio neutrale, facendosi passare per un mercante arabo e prendendosi gioco dei servizi segreti britannici ai quali scapperà letteralmente da sotto il naso.
Nel ’43 tornerà in Italia; dopo l’Armistizio raggiunge il Re a Brindisi, nel ‘44 sposa la cugina Beatrice, termina la guerra come ufficiale di collegamento tra l’Esercito Italiano e l’Ottava Armata britannica.
Poi comincia la carriera diplomatica: diventa uomo di pace, amico e collaboratore di chi gli aveva dato la caccia sino al ’43.
Molte cose univano il comandante Guillet al maggiore Max Harari dell’8° reggimento Ussari di Sua Maestà: nobiltà d’animo, sportiva correttezza anche verso gli avversari, coraggio.
E Sandor: Max Harari pensava che il personale di scuderia indigeno sbagliasse il vero nome del cavallo e lo storpiasse.
Un po’ troppo slavo per il berbero di un italiano in Eritrea, pensava Harari, che lo chiamava Sandro.
Lo montava ogni giorno divertendosi a saltare ostacoli imponenti, quasi impensabili per un cavallino così minuto: ma il berbero grigio era stato lavorato troppo bene da Guillet e non rifiutava mai niente.
Al maggiore piaceva perché era brillante, facile ed obbediente pur avendo sangue e carattere deciso, e attraverso di lui conosceva sempre meglio il suo vecchio cavaliere.
Negli anni cinquanta Guillet ed Harari si incontreranno e diventeranno amici fraterni: un piccolo miracolo, come il fatto che sua moglie e la sua ex-compagna abissina sapessero una dell’altra e avessero sempre nutrito, per l’altra donna dello stesso cavaliere, gratitudine e affetto: perché ognuna era legata ad un mondo diverso, e ognuna aveva garantito ad Amedeo le cure e il sostegno di una donna dal grande cuore.
Un giorno Max lasciò sulla scrivania di Amedeo un pacchetto: dentro c’erano uno zoccolo perfettamente ferrato all’italiana montato in argento con l’iscrizione «Sandro. Berbero grigio, 12 anni. Max Harari, Asmara – giugno 1942 » e la fotografia dello stallone grigio che guardava sereno fuori dal suo box, con una dedica a penna: «Ad Amedeo, in ricordo del meraviglioso animale che fu causa della nostra amicizia».
Per chi scrive il comandante Guillet è sempre il più perfetto dei cavalieri, come nella fotografia presa subito dopo la carica di Selaclaca del dicembre 1935.
Composto e corretto sul suo cavallo grigio perfettamente sugli appiombi, nonostante la battaglia appena finita e la ferita che segnerà per sempre la sua mano sinistra.
E’ lo stesso cavaliere che a casa sua in Irlanda si siede al centro del maneggio e insegna a montare alle bambine degli amici, lo stesso cavaliere che non ha mai avuto paura di seguire la propria coscienza.
E poco importava se la strada era difficile: perché c’era Sandor a galoppare con lui.
Per saperne di più, qui una storia di guerra e cavalli e da leggere ci sono:
La guerra privata del tenente Guillet di Vittorio Dan Segre, Corbaccio 1993