Bardi, 18 gennaio 2019 – Non lo conoscevo di persona, il signor Beniamino Gandolfini: ma la sua intervista è una di quelle che più mi hanno colpito quando ho letto e recensito La diversità genetica del cavallo Bardigiano ad oggi, il libro edito dal Libro genealogico del Cavallo Bardigiano nel 2018 in collaborazione con Fondo Europeo per lo Sviluppo Rurale, Mipaaf ed Equinbio.
Perché Gandolfini discendeva da una famiglia di allevatori di Bardigiani, era cresciuto con loro e si portava dietro le conoscenze, il sapere e la sensibilità di acquisite anche dalle generazioni che lo avevano receduto. E perché era una persona evidentemente profonda, attenta, capace di individuare con precisione i dettagli importanti in una vita intera di ricordi per far capire anche a chi non c’era cosa era significativo, e utile, anche adesso.
Tramite le sue parole diventa lampante il perché noi, adesso, possiamo goderci quei piccoli (ma solo al garrese!) gioielli bai che sono i cavalli Bardigiani: perché sono così spiccatamente inclini alla collaborazione con noi bipedi, perché ti guardano cme se non aspettassero altro che di darti uan mano a fare qualcosa.
Sono così perché li hanno selezionati persone come i Gandoflini, e tanti altri come loro: li ricordiamo tutti ricordando Beniamino che non c’è più, ma ci ha lasciato tanto.
DI seguito il brano preso dal libro citato, un particolare ringraziamento a Irene Obertelli e Matteo Vasini per la gentile collaborazione.
“E’ una lunga e interessante chiacchierata quella che facciamo con Beniamino Gandolfini, classe 1928, nato, cresciuto e tuttora residente a Boccolo Tassi, in provincia di Parma.
Sappiamo di avere la fortuna di parlare con un uomo dell’Appennino dallo spirito ardito: due occhi che sembrano trafiggerci, una mente a cui non sfugge nulla, un acuto modo di vedere il mondo.
I suoi racconti evocano suggestioni lontane nel tempo, eppure vicine perché appartenenti alle nostre tradizioni, alle nostre radici.
Beniamino proviene da una storica famiglia di allevatori del Cavallo Bardigiano.
Tra i suoi primi ricordi legati al Cavallo Bardigiano vi è l’immagine del padre che, ogni giovedì, si recava al mercato di Bardi con la sua cavalla.
Durante la bella stagione la cavalla veniva sellata e montata (rigorosamente con la bardella, prodotta e acquistata nella zona di Bedonia), mentre in inverno veniva attaccata ad una piccola “lesa” (una sorta di slitta in legno), sulla quale al ritorno veniva caricata la spesa.
Beniamino racconta di quanto allora i cavalli fossero preziosi alleati della gente di montagna e quanto disparati fossero i loro utilizzi: talvolta i cavalli portavano il basto e, insieme ai muli, trasportavano il legname o il carbone di legna prodotto nei boschi attraverso l’antica arte della “carbunera”, più spesso però venivano sellati o attaccati e utilizzati come mezzo di trasporto: il padre di Beniamino, Agostino Gandolfini, classe 1892, si era recato alla visita militare in sella alla sua bardigiana, partendo da Boccolo e arrivando fino a Castell’Arquato (PC), dove allora si trovavano gli uffici della leva obbligatoria.
Il percorso compiuto non era affatto breve e nemmeno era agevole, in quanto allora le strade altro non erano che sentieri sconnessi, eppure il padre Agostino raccontava spesso ai figli Beniamino e Lodovico di quanto, grazie alla sua cavalla, quel viaggio fosse stato tutto sommato piacevole.
Beniamino ricorda anche che suo padre aveva venduto un cavallo maschio all’allora medico di Varsi (PR), che lo utilizzava per i suoi servizi; medici e levatrici dell’epoca, infatti, si affidavano spesso al piede sicuro di un Bardigiano, anche di notte, per giungere nel minor tempo possibile dai pazienti.
Anche parroci e curati, su questi nostri Appennini, viaggiavano spesso in sella a cavalli Bardigiani, ora per portare l’Eucarestia e il conforto della preghiera ai malati, ora per la benedizione delle case nelle frazioni più lontane, ora per il tradizionale rito di benedizione dei terreni agricoli.
Alla domanda riguardante le sensazioni della sua prima volta in sella Beniamino Gandolfini risponde di non ricordarla, così come non ricorda la prima volta in cui ha camminato: a quei tempi per i bambini imparare a montare a cavallo era qualcosa di assolutamente naturale e faceva parte della quotidianità, pur rappresentando un momento di gioia oltre che una necessità.
Beniamino ricorda infatti con piacere le volte in cui si recava a cavallo a far visita ad uno zio risiedente a Pianazze (Comune di Farini, PC), perché quei viaggi in sella lo facevano sentire già grande e indipendente.
Con altrettanto orgoglio ricorda anche di come allora i giovanotti ci tenessero a far bella figura nell’andare a trovare le “morose” (fidanzate) in sella, vestendosi con grande dignità pur appartenendo il più delle volte a famiglie a cui la povertà non era sconosciuta.
L’abbigliamento del cavaliere si componeva di camicia, pantaloni e gilet (o giacca) di fustagno, scarponi ed era corredato da quelli che da queste parti venivano chiamati “stivali di lana”: gambali di lana trattata in maniera da diventare impermeabile e resistente, adatta a mantenere una temperatura stabile che faceva percepire caldo in inverno e fresco in estate.
La lana per i gambali veniva ricavata dalla tosatura delle pecore che praticamente ogni famiglia possedeva, mentre il tessuto per giacchetta e pantaloni arrivava da lontano, da Novi Ligure: giungeva fino al mercato di Bardi grazie al lavoro dei mulattieri e delle loro carovane. Una volta reperiti fustagno e lana i vestiti venivano confezionati in casa da mamme, nonne, zie o sorelle degli aitanti cavalieri.
L’ultimo tocco era dato dal cappello e, per chi lo possedeva, dall’orologio da taschino, la cui catenella gli uomini non mancavano di esibire quando, nei giorni di festa, si recavano in sella alla sagra del paese.
I fratelli Beniamino e Lodovico Gandolfini hanno sempre allevato con grande passione, usufruendo, per le proprie fattrici, degli stalloni presenti a Monastero di Morfasso presso la storica stazione di monta di Giovanni Inzani, successivamente degli stalloni presenti nelle stazioni di monta che andavano via via sviluppandosi proprio a Boccolo (lo stesso Ludovico infatti ne gestirà una).
Mentre la nostra chiacchierata prosegue iniziamo a parlare di quelli che sono stati gli stalloni storici che hanno contribuito in maniera incisiva allo sviluppo della razza e Beniamino mostra con orgoglio un quadro contenente la foto di Lisippo, stallone allevato dal padre, che verrà poi venduto e sarà gestito dal Centro di Incremento Ippico della Regione Emilia Romagna, situato in provincia di Reggio Emilia.
Lisippo darà i natali ad Ariosto nel 1968 proprio qui, a Boccolo Tassi.
Ariosto si dimostrò un eccezionale riproduttore e si può affermare che almeno una goccia del suo sangue sia presente in una vastissima percentuale dei bardigiani odierni. Chiediamo a Beniamino di descrivercelo al di là delle fotografie che possiamo aver visto e ci risponde che Ariosto aveva nell’espressione qualcosa che nessuna macchina fotografica avrebbe potuto catturare, aveva una testa perfetta e, per quanto riguarda il carattere, era buono, ma «…aveva l’argento vivo addosso! E’ un cavallo che ha fatto la storia.»
Mentre il pomeriggio volge al termine e “Begnam” (qui tutti lo chiamano così) apre una bottiglia di vino rosso, gli chiediamo se ci sia qualcos’altro che vuole raccontare a coloro che non hanno vissuto quegli anni, gli anni di istituzione del Libro Genealogico del Cavallo Bardigiano e gli anni ancora più lontani nel tempo.
Beniamino riflette un po’, il suo sguardo penetrante e acuto si perde per un attimo nei ricordi lontani, ma subito torna intenso e ardito, nel rispondere: «Mi ricordo del più bravo cavaliere di Boccolo, si chiamava Adolfo Stomboli e in sella “a lera ona canunà” (era una cannonata), ma anch’io sapevo il fatto mio!
A quei tempi là i cavalli si domavano a casa, iniziavamo a saltarci in groppa “a pel nüda” (a pelo), a volte avevamo il morso ma a volte no, legavamo due corde alla cavezza e li domavamo così, la sella la mettevamo solo quando praticamente erano già domati.»
Beniamino riflette ancora un po’, ride e schiocca le mani l’una contro l’altra, iniziando a raccontare un aneddoto con il quale si concluderanno le chiacchiere, inizieranno le risate e verranno riempiti i bicchieri.
L’episodio viene raccontato in dialetto, lo riportiamo ovviamente in italiano, pur con rammarico: alcune delle espressioni utilizzate non trovano purtroppo un corrispettivo altrettanto incisivo e un po’ del folklore e della bellezza del racconto vanno purtroppo perduti.
Mentre ascoltiamo queste parole pensiamo a quanto ci sarebbe piaciuto poter vivere quegli anni, conoscendo i capostipiti della razza equina che tanto amiamo, ma ci sentiamo comunque fortunati a poter sentire questi racconti da chi li ha vissuti, così socchiudiamo gli occhi e, mentre Beniamino racconta, le sue parole ci conducono sui sentieri che vanno da Boccolo al Monte Lama, dal Monte Lama a Teruzzi, da Teruzzi a Morfasso.
«Eravamo alla fine degli anni ’70 e c’erano le prime rassegne a Morfasso…quel mattacchione di mio parente Claudio di Teruzzi (Claudio Obertelli) sapeva che avevo una gran bella cavalla, la Mora, al pascolo sul Monte Lama, così andò lassù e me la rubò per un giorno, presentandola alla rassegna a suo nome.
Allora il Libro Genealogico c’era da poco e i regolamenti non erano così tanto severi, lui però sapeva di fare una marachella, ma era giovane e un po’ matto, così andò sul monte, saltò in groppa alla Mora e la portò fino a Morfasso, attraversando la piazza al galoppo! Alla fine vinse il primo premio con la mia cavalla e io devo ammettere che ne fui anche contento!»
Grazie per questi racconti Begnam, è bello concludere questa “intervista” con un’immagine di cavalli al galoppo, gioventù, allegria e libertà”.