Padova, 13 febbraio 2018
Avrà avuto sì e no undici, dodici anni. Stava seduto sopra uno sgabello davanti al video e i piedi non gli arrivavano nemmeno a terra: dondolavano avanti e indietro, meditabondi. Il viso era ovviamente quello di un bambino, però con un’espressione seria e consapevole.
Mi avvicinai incuriosito. Alla base dello schermo c’erano alcuni tasti sui quali il bambino muoveva rapidamente e con insospettata agilità le sue dita rosee e grassottelle; sullo schermo appariva l’immagine di un cavallo che correva lungo una pista disseminata di ostacoli, ciascuno dei quali aveva un valore proporzionale alla sua difficoltà. La visione di profilo permetteva inoltre di valutare l’altezza e la larghezza degli ostacoli, nonché lo sviluppo della parabola del salto. I tasti sul piano orizzontale alla base dello schermo servivano per aumentare o diminuire la velocità del cavallo, e il terzo per fargli fare il salto davanti all’ostacolo.
Mi colpì particolarmente la precisione con cui erano rappresentati uomo e cavallo, e come quest’ultimo galoppasse perfettamente, con tanto di oscillazione dell’incollatura e ondeggiamento della coda. Sembrava vero, e lo sembrava ancor di più quando saltava armonicamente seguito dal suo fantino/cavaliere.
Venni interrotto in queste mie riflessioni da un brusco gesto del bambino che avendo fallito un salto si era sbattuto un pugno sul ginocchio con rabbia; la gara si era interrotta e bisognava ricominciare da capo.
«Beh, sei stato bravo lo stesso», gli dissi. Tentavo di essergli complice e volevo consolarlo, ma lui era un vero professionista e non mi degnò nemmeno di un’occhiata; non poteva infrangere l’atmosfera di concentrazione in cui si era calato. Mi sentii ridicolo e un po’ imbarazzato.
Il bambino estrasse con calma un altro gettone dalla tasca, lo infilò nella fessura della macchina e subito apparvero i cavalli al via, in uno scintillio di colori, musiche e immagini favolose: il bambino si inumidì le labbra con la punta della lingua e si preparò alla nuova gara. Tre, due, uno… via, partiti! Subito il bambino portò il suo cavallo in testa al gruppo con uno scatto bruciante e lo condusse deciso verso il primo ostacolo.
Immediatamente, e senza che io lo volessi, nel mio cervello prese corpo quella familiare e meravigliosa sensazione: il cavallo che galoppa sotto di me, formidabile macchina fatta di carne ossa e sangue, io che sono con lui, la potenza delle sue falcate che diventa il mio ritmo vitale, sento l’aria che mi investe la faccia e mi entra nelle narici e mi fa lacrimare gli occhi, la forza possente di quella schiena e di quella groppa e di quelle spalle…
Niente di tutto questo: il bambino, seduto sullo sgabello, schiacciò freddamente il pulsante al momento giusto, la figurina sullo schermo fece un piccolissimo balzo e l’ostacolo gli fu subito alle spalle. Facile.
Il bambino non tradiva la benché minima emozione. L’unico movimento era quello degli occhi, che seguivano le immagini, e delle dita delle mani, che schiacciavano alternativamente i tre pulsanti. Tutto il resto era immobile, difficile dire se per grande concentrazione o se per disinteresse ormai generato dall’abitudine. Anche i piedi non dondolavano più.
Mi accorsi in quel momento che la corsa era finita. Sullo schermo stava succedendo di tutto, fuochi artificiali, musiche e coriandoli e festoni: il bambino aveva vinto la gara e stava a osservare quel tripudio in festa dall’alto del suo sgabellino. Il piede destro aveva ripreso a dondolare avanti e indietro, gli occhi stavano fissi sullo schermo forse affascinati, forse annoiati per dover aspettare ancora quei pochi secondi prima di poter iniziare una nuova corsa.
Approfittando di quella pausa tentai nuovamente di avvicinare il giovane vincitore: «Ehi», gli dissi cercando di assumere un’aria ingenua e infantile, «sei veramente forte: ti piacerebbe montare a cavallo sul serio?».
«No», rispose lui senza nemmeno voltarsi.
«Beh, è una cosa molto bella, davvero. Voglio dire, montare a cavallo».
Non ottenni risposta. I colori sul video scintillavano festosi. Il bambino dondolava il piede. Io cominciavo a sentirmi un po’ a disagio.
«Ma ti piacciono i cavalli?», azzardai dopo qualche istante di silenzio.
«No», fu la secca risposta, con tono che non ammetteva replica.
«Ma guarda che… ».
«No», ribadì lui.
Va bene, va bene, per carità, contento tu, pensai dentro me stesso con un senso di fastidio. Stetti a guardare quel bambino per un altro po’: piccolo, grassottello e già spaventosamente vuoto.
Decisi di andarmene e mi ritrovai fuori dal luna park quasi senza accorgermene. Il bambino e il suo maledetto videogioco erano invece ancora là dentro e lui, il bambino, dondolava i piedini e le gambette grassocce e schiacciava i tre pulsanti con le piccole dita rosee e paffutelle.
Io alzai lo sguardo verso l’alto e vidi le stelle splendere nel cielo della sera. Perbacco, pensai tra me e me.