Bologna, 16 febbraio 2023 – Ci sono storie che ad approfondirle sono ancora più belle di quello che sembrano all’inizio.
Come quella di Peyo de l’Épée, uno stallone Lusitano sauro nato nel 2003 in Francia.
Peyo all’inizio partecipava alle competizioni di Dressage Artistico, uno spin off della più classica disciplina olimpica che lascia più spazio alle figure di fantasia.
Non era un cavallo facile: quando il cavaliere di origine algerina Hassen Bouchakour, pluri-campione della specialità, lo acquistò nel 2011 per inserirlo nei suoi spettacoli equestri si trovò di fronte a diversi problemi.
Tanto che non aveva più voglia nemmeno di montarlo e lo mise in vendita: a Peyo non piace essere coccolato, ha un carattere forte e dominante.
“Poi improvvisamente è scattato qualcosa e siamo riusciti a capirci”, ha detto Bouchakour in una intervista a Ouest France che ha vinto il premio giornalistico Varenne.
Hassen nel frattempo aveva notato che alla fine degli spettacoli o delle sue riprese di dressage Peyo si fermava vicino a qualche persona che non conosceva, e stava tranquillo accanto a lei.
Ed erano sempre persone con qualche fragilità: o molto anziane, o con disabilità, comunque sempre indebolite moralmente, fisicamente e psicologicamente.
Peyo le intercettava e dedicava loro del tempo di qualità, direbbe qualcuno: gli regalava la sua dolcezza, quella calma che nessuno pensava potesse avere per sé.
Così Hassen ha deciso di valorizzare questo aspetto della personalità di Peyo e dopo 5 anni di studio e preparazione ha cominciato a portarlo negli ospedali.
Lì il dottore honoris causa con la criniera ha la libertà di fare quello che sente: dopo una meticolosa preparazione (ogni volta viene lavato, disinfettato e intrecciato, è regolarmente tosato e ha persino imparato a sporcare solo dove e quando gli è permesso, oltre a passare su pavimentazioni di tutti i generi e prendere ascensori) lo stallone viene portato in reparto dove sceglie, da solo, la camera in cui fermarsi.
Non è pet-therapy, nessuno lo dirige o lo contiene, gli indica cosa deve fare o lo costringe a fermarsi.
Lui osserva, sceglie il suo caso, si avvicina al paziente e lo tocca, lo annusa, gli sta vicino con una dolcezza grande quanto è grande lui stesso: e gli effetti sono sorprendenti, anche per gli stessi medici.
Persone rinchiuse nel loro mutismo sorridono e gli parlano, i malati terminali trattati con ansiolitici e antidolorifici riescono a ridurre le dosi di farmaco necessarie. Tutto per lui, per quel magnifico cavallo sauro che sceglie di accompagnarli per un po’ di tempo nel loro percorso di dolore.
Peyo è studiato e tenuto sotto osservazione da medici e ricercatori che hanno anche testato altri 500 cavalli (di cui alcuni sono suoi figli): ma in nessuno hanno riscontrato gli stessi processi mentali di quello che a buon diritto è ormai conosciuto come Dr. Peyo.
Hassen insiste molto sul fatto che Peyo non fa miracoli: ma riesce a ridare serenità alle persone che se ne stanno andando.
Attualmente Hassen e Dottor Peyo prestano il loro servizio in 5 diversi ospedali francesi. Econ il loro progetto ‘Le Sabots du Coeur‘ hanno in progetto di creare un centro per i malati terminali a Calais, la loro base.
“Sarebbe un centro unico al mondo” ha detto recentemente Bouchakour a Paris Match, “un centro della dignità umana. I pazienti avrebbero un vero supporto psicologico e noi potremmo aiutare le famiglie in questi momenti sempre difficili. Sarebbe un luogo aperto agli animali, a metà strada tra casa e cure palliative. Morire in un luogo sereno, circondato dai propri cari, con dignità”.
Peyo effettua una ventina di interventi a fine vita ogni mese, e dal 2016 percorre circa 250.000 km all’anno per arrivare dove lo hanno chiamato oltre 150 professionisti della salute che hanno lavorato con lui.
Ma probabilmente la parte più dura è quella di Hassan, che confessa quanto a volte sia difficile dimenticare cosa vede in quelle camere.
“Lo faccio perché è parte della mia cultura. Nel Maghreb i bambini si prendono cura degli anziani. Il mio obiettivo è far capire alla gente che non è perché si è condannati da una malattia che si può essere abbandonati. Non dobbiamo mai dimenticare che c’è ancora un cuore che batte”.