Padova, venerdì 31 maggio 2019 – Riflesso nello specchio Enrico controlla che tutto sia a posto: la piega dei capelli spalmati di gel, la camicia sbottonata il giusto, la giacca senza pieghe… Enrico controlla: e ogni cosa effettivamente è a posto, sì. Enrico quindi si avvia lungo le scale e scende al piano terra. Davanti al comodino che sta di fianco alla porta di casa Enrico si ferma un istante e verifica con cura di avere tutto con sé: portafoglio, chiavi della macchina, chiavi di casa, dieci grammi di cocaina, venti pastiglie di ecstasy. Bene. Tutto ok.
Enrico esce di casa con qualche minuto di anticipo, ben sapendo che lungo la ventina di chilometri che avrebbe dovuto percorrere per arrivare a casa di Michela non avrebbe incontrato distributori di benzina; e nemmeno tra casa di Michela e la discoteca dove lui e lei si sarebbero incontrati con tutti gli altri. Quindi sarebbe stato prudente fare il pieno subito, prima di andare a prendere Michela. Organizzazione, soprattutto.
Dopo essere uscito dal garage della sua casetta a schiera alla guida della sua piccola Peugeot, Enrico si immette sulla strada che porta all’incrocio. Giunto all’incrocio si arresta e controlla il flusso di traffico da sinistra e da destra prima di riprendere a muoversi per attraversare. Appena possibile Enrico attraversa l’incrocio tenendo però d’occhio una Punto che è parcheggiata in un modo strano sul ciglio della strada sulla quale lui adesso si inserisce, ferma ma come se dovesse riprendere a muoversi da un momento all’altro… Enrico sa bene che spesso in paese qualche vecchiotto molla lì la macchina e poi riparte senza badare a nulla e a nessuno: sono pericolosissimi, questi vecchiotti, quindi meglio fare attenzione…
Enrico attraversa l’incrocio e poi si dirige verso la piazza, andando proprio in direzione del bar in cui ogni giorno lui e la sua compagnia avevano il ritrovo di rito e dove, dopo aver fatto benzina, sarebbe dovuto tornare per prendere Carlo e Stefano e poi con loro andare da Michela. Passato il bar Enrico arriva all’incrocio con la statale, e prima di fermarsi per dare la precedenza butta automaticamente l’occhio allo specchietto retrovisore: dietro di sé vede una macchina di colore scuro, anche questa una Punto… chissà, forse la stessa del vecchiotto un po’ sbadato… Enrico quindi mette la freccia e si inserisce sulla statale girando a destra, dirigendosi verso il distributore automatico di benzina. Al distributore Enrico fa il pieno: finito il rifornimento risale in macchina e si immette nuovamente sulla statale in direzione opposta a quella da cui era provenuto. Andando verso l’incrocio dove avrebbe dovuto svoltare a sinistra per ritornare verso il bar, Enrico passa davanti al grande parcheggio del negozio di arredamento di proprietà del Briscola, un caro amico di suo padre soprannominato così per via della passione per le carte. Il negozio a quell’ora di sera era ovviamente chiuso e dunque il parcheggio deserto. C’era solo una macchina ferma in mezzo a quell’area vuota: una Punto di colore scuro. Questa volta Enrico la nota con un po’ di sorpresa: pensa che forse è gente che si è persa, pensa che forse è gente che non ha un tubo da fare. Capita, a volte.
Enrico all’incrocio svolta a sinistra, procede ancora per qualche decina di metri, poi rallenta in prossimità del bar e accosta. Ferma la macchina e apre lo sportello che però sorprendentemente si spalanca con una rapidità quasi violenta, tanto che la maniglia gli sfugge completamente di mano: Enrico non fa in tempo a stupirsene, perché la sorpresa decisamente più terrificante è quella di vedersi una pistola puntata contro e sentire una voce fredda e intimidatoria che dice Guardia di Finanza, esci dalla macchina con le mani dietro la testa, forza. Enrico non capisce, gli sembra di sentire un ronzio e basta, ma esegue l’ordine con una sensazione di panico che lo attanaglia dallo stomaco al cervello. Quando è in piedi Enrico si accorge che la sua macchina è circondata dalla Punto di colore scuro e da altre due automobili. Enrico è paralizzato dalla paura e se ne sta lì fermo immobile con il fiato corto dalla tensione mentre gli agenti in borghese perquisiscono prima lui e poi la sua macchina da cima a fondo. Trovano la cocaina e le pastiglie di ecstasy. Enrico è terrorizzato, sente lo stomaco liquefarsi.
Quando la perquisizione termina l’ufficiale che stava comandando l’operazione prende Enrico per un braccio e lo spinge dentro la Punto di colore scuro: «Andiamo a casa tua», gli dice.
«Io non… », balbetta Enrico che non fa in tempo a finire la frase.
«Sappiamo dove abiti, abbiamo tutto sotto controllo, anche il tuo telefono, quindi risparmiati la scena», dice l’ufficiale.
Enrico pensa che non voleva fare alcuna scena… pensa che andare a casa così, in quel modo… è una catastrofe, la fine del mondo… almeno le macchine non hanno i lampeggianti e le scritte, pensa.
Arrivano. Un agente chiede a Enrico di dirgli se c’è altra roba e se ci sono altre pastiglie. Enrico dice che la cocaina e le pastiglie sono di sopra, in bagno, nell’incavo posteriore della base del bidet. Alcuni agenti quindi prendono Enrico per le braccia e con lui si dirigono di sopra mentre gli altri iniziano la perquisizione lì nel soggiorno, nel soggiorno della casetta a schiera di Enrico e della sua famiglia.
A un certo punto mentre è di sopra in bagno con gli agenti Enrico sente delle urla e un grande trambusto giù di sotto. È rientrato suo padre, che dopo aver aperto la porta di casa si è trovato davanti allo spettacolo dei militari della Guardia di Finanza che stavano aprendo cassetti e sportelli e credenze e armadietti frugando dappertutto. Gli agenti che sono di sopra riportano Enrico sul ballatoio della scala: Enrico vede suo padre, e suo padre vede lui. L’ufficiale che stava coordinando le operazioni dice al padre di Enrico che Enrico è uno spacciatore di sostanze stupefacenti, che lo hanno tenuto sotto controllo a lungo, che hanno trovato la droga anche in casa. Enrico ascolta quelle parole in stato confusionale, facendo davvero fatica a capire che si stava parlando proprio di lui… Spacciatore? Lui? Perché? Perché… ? Lui aveva il suo lavoro da operaio in fabbrica e poi andava a ballare il fine settimana: questa era la sua vita. Certo, la cocaina, le pasticche… ma insomma, era per fare baldoria, per festeggiare i compleanni, per sballare tutti assieme. Sì, lui ormai di cocaina se ne faceva parecchia, ma era una cosa sua, riguardava lui. Poi la cocaina l’aveva anche venduta, certo, e aveva venduto anche le pasticche di ecstasy, certo, ma le aveva vendute perché c’era chi gliele aveva chieste, solo per questo! E per questo era uno spacciatore? Spacciatore… una di quelle parole che Enrico sentiva al telegiornale la sera mentre era a tavola a cena nel tinello di casa con la sua famiglia, una parola lontana, una parola che stava dentro la televisione, una parola talmente grande e pericolosa da non aver niente a che fare con le casette a schiera e con la chiesa e con la piazza e con il bar del paese.
Suo figlio è uno spacciatore, dice l’ufficiale della Guardia di Finanza al padre di Enrico. Lui, il padre, è impietrito. Senza parole. Poi rivolgendosi a Enrico lassù sul ballatoio della scala l’ufficiale dice: «Preparati una borsa con quello che ti serve perché ti dobbiamo portare in caserma».
Enrico guarda suo padre, uno sguardo che è una muta implorazione, come un gancio che si attacca a qualcosa per impedire che la massa perda il sostegno, una specie di appiglio estremo… Il padre di Enrico come inanimato cade a terra, in ginocchio. E scoppia a piangere.
Dopo aver terminato il giro dei box e aver poi scopato per bene il pavimento del corridoio della scuderia, Enrico si concede la prima sigaretta della giornata. Un momento atteso, un momento da gustare fino in fondo: ognuno di loro aveva a disposizione solo dieci sigarette al giorno, quindi bisognava dosarle per bene e soprattutto fumarle nei momenti giusti, nei momenti in cui si potesse davvero apprezzare il relax. Così Enrico mette via la scopa, porta fuori la carriola, sistema due o tre capezzoni che erano rimasti lì in giro in disordine, svuota un secchio di acqua sporca dentro un tombino di scarico, poi si dà una scrollata ai pantaloni dai quali pendevano ancora alcuni fili di paglia e infine raggiunge la panchina là fuori, quella dove andava sempre a sedersi per fumare la prima sigaretta della giornata, a volte in compagnia a volte da solo. Adesso infatti è da solo: gli altri sono tutti affaccendati nelle loro mansioni.
Enrico si siede, tira fuori il portasigarette di metallo, prende una sigaretta, l’accende, aspira, poi butta fuori il fumo con una espirazione lunga e regolare e profonda. Enrico sente su di sé il tepore del sole di primo mattino. Vede il cielo azzurro. Va tutto bene. Dopo un’estate, un autunno, un inverno e una primavera ecco l’estate di nuovo: è il ritmo delle stagioni, ovviamente, un anno dopo l’altro. Il ritmo della vita. Anche la vita di Enrico aveva avuto un ritmo regolare e costante, una volta: fabbrica, stipendio, cocaina, discoteca, ecstasy, fabbrica, stipendio, cocaina, discoteca, ecstasy, fabbrica… Regolare e costante. Enrico sapeva di averla scampata bella davvero: in quei primi anni di comunità aveva visto bene dove si poteva arrivare e cosa gli sarebbe potuto accadere. Lui era stato fermato in tempo, per fortuna, e quindi…
Già, quindi. Quindi adesso Enrico sente di poter recuperare. Enrico era arrivato all’età di ventisei anni ritrovandosi praticamente con la vita distrutta, azzerata: i suoi fratelli più grandi avevano un lavoro, uno addirittura una moglie e un figlio, si erano sistemati… e lui invece niente lavoro, zero soldi in banca, nessuna fidanzata, poi addirittura in galera. Ma adesso Enrico sente di poter recuperare il tempo perduto, sì, sente di potercela fare. Perché lo sai cosa penso?, dice Enrico, lo sai? Ecco, penso che qui i cavalli servano a trasmetterti l’importanza di uno scopo, di un programma. Nella vita di un cavallo succedono tante cose a breve scadenza una dall’altra e così tu hai la possibilità di fare delle verifiche continue circa la bontà di quel cammino, di quel percorso, di quel programma. Che ne so: un puledro nasce e tu lo vedi crescere, e poco dopo lo vedi domato, e poi lo vedi montato, e poi lo vedi in gara… Ed è come se la tua vita si sovrapponesse alla sua: insieme alla sua vita va avanti anche la tua e tutte e due queste vite girano insieme intorno alle stesse boe, agli stessi paletti. E se una delle due vite va bene molto probabilmente vuol dire che va bene anche l’altra, ecco cosa penso.
I pensieri di Enrico. Quei pensieri che è come se si fossero risvegliati improvvisamente quasi un anno prima, quando era successa la storia di Lira. Lira era una bella e brava cavalla, dolce e tranquilla, alla quale Enrico si era subito affezionato. Per lui, appena arrivato in comunità, era stata come una specie di nave scuola per imparare come si fa la toelettatura, come si puliscono i piedi, come si conduce un cavallo a mano. Era lei che gli aveva insegnato a stare insieme a un cavallo: con la sua pazienza, la sua disponibilità, la sua tolleranza, la sua capacità di sopportare anche i gesti maldestri e inesperti di una persona che un cavallo non l’aveva mai né visto né toccato prima in vita sua. Enrico aveva imparato insieme a Lira.
Poi quella sera. Enrico era salito in scuderia per andare a fare il suo turno. Come sempre era passato davanti ai box per dare un’occhiata veloce e controllare che tutto fosse in ordine e che le coperte sui cavalli fossero a posto. Si era fermato un attimo in più da Lira: aveva aperto la porta del box, l’aveva salutata, le aveva parlato, l’aveva accarezzata sul naso morbido e vellutato e sul collo forte e lungo. Però aveva notato qualcosa di strano: Lira era irrequieta, non stava ferma a farsi accarezzare come al solito, no, si spostava lentamente da una parte all’altra del box, quasi un’oscillazione metronomica, rallentata sì, ma comunque anomala. Enrico l’aveva guardata, le aveva detto «Beh? Cosa c’è, eh, cos’hai Lira? Dai, stai tranquilla che tra un po’ torno a salutarti… », e le aveva dato ancora un’affettuosa pacca sul collo. Poi era uscito, aveva chiuso la porta del box e si era avviato lungo il corridoio verso il ripostiglio degli attrezzi. Enrico si era incamminato lungo il corridoio, circondato dai soliti piacevoli rumori di scuderia: un cavallo che sbuffa, uno che batte un piede sulla porta di legno del box, il fruscio della paglia delle lettiere smosse dagli zoccoli… Però a un certo punto mentre stava camminando Enrico aveva sentito anche un altro rumore, un rumore improvviso, un rumore strano, un rumore che gli aveva fatto venire subito in mente quello che si sente quando si fanno cadere a terra le balle di paglia o di fieno dalla cima del mucchio lassù in alto, un tonfo sordo e privo di seguito, il rumore di un tonfo definitivo… Enrico si era voltato e si era diretto verso il box di Lira, gli era sembrato che fosse venuto da lì quel rumore. Avvicinandosi al box Enrico si era stupito di non vedere Lira oltre le inferriate della porta, che strano, sarà addossata a una delle pareti. Enrico aveva guardato dentro il box di Lira: Lira era a terra. Morta.
Enrico aveva aperto la porta del box e aveva guardato Lira rimanendo immobile, quasi stupefatto per un evento che non aveva minimamente mai considerato come possibile, nemmeno probabile. Enrico l’aveva guardata come aspettandosi di rivederla in piedi da un momento all’altro, pur capendo bene che ormai l’irreversibilità della morte avrebbe reso impossibile qualunque recupero della situazione precedente. Enrico allora si era chinato vicino alla testa di Lira e le aveva appoggiato una mano sul naso morbido e caldo, poi le aveva accarezzato la guancia e l’incollatura. C’era un silenzio così grande… Come è possibile, aveva pensato Enrico. Non è possibile… Enrico aveva sentito crescere dentro di sé un dolore lento ma sempre più ingombrante. In quel momento aveva avvertito chiaramente la dimensione dell’amore provato per Lira: Enrico in quel momento aveva avvertito anche il bisogno urgente di riaverla viva con i suoi occhi mobili e dolci e le orecchie attente che seguivano tutti i movimenti… Enrico si era improvvisamente sentito trafitto da un dolore lancinante, come quando si deve dire addio a qualcuno di amato che con noi non può più proseguire… Enrico in quel momento aveva sentito tutto l’amore e tutta la gratitudine. Per lei, per Lira… Grazie amica mia.
Era passato un anno, da quel giorno. Un’estate, un autunno, un inverno, una primavera e adesso un’estate di nuovo. Il ritmo delle stagioni, anno dopo anno. Il ritmo dell’esistenza. Enrico finisce la sigaretta. Si alza dalla panchina stiracchiando le braccia e facendo un bel respirone. Davanti a lui una dura giornata di lavoro. Davanti a lui tutta la vita.