Bologna, 12 marzo 2019 – Il 12 marzo del 1863 nasceva a Pescara Gabriele D’Annunzio: Vate, scrittore, poeta, drammaturgo, militare, politico, giornalista e patriota italiano nonché principe di Montenevoso ma anche mancato professore proprio qui a Bologna, dove l’Alma Mater gli offrì per ben due volte la cattedra di Letteratura Italiana rifiutata in ambedue i casi da D’Annunzio, che era riuscito a trasformare esercizio e coraggio fisico in punti fermi della sua poetica e preferiva «…forme più onorevoli di suicidio» rispetto alla lenta asfissia di una chiusa scuola.
Bello che ci siano documentari come quello che Rai Cultura manderà in onda oggi alle 21.45 su Rai Storia: “L’amante guerriero. Storia e vita di Gabriele D’Annunzio” (di Giordano Bruno Guerri, Paola Veneto, Anna Villari, con la regia Federico Cataldi) a illuminarne il profilo, sempre troppo confuso ai nostri occhi così poco abituati alle ombre del Decadentismo.
Eppure è proprio lì, protette da quella penombra intima che permette sola di esprimersi liberamente, senza le rigidità dei vecchi schemi che sono nate opere fondamentali per la nostra letteratura. Così intrecciate al momento storico loro contemporaneo che è difficile capire se ne sono state la conseguenza o lo hanno favorito modificando la realtà delle cose grazie all’impatto emotivo nuovo, trascinante che rappresentavano: Gabriele D’Annunzio era un vero maestro in questo, e l’impresa di Fiume ne è un chiaro esempio.
Ma tanta energia, creativa e non, era declinata secondo modalità poco comprensibili ai nostri giorni: D’Annunzio è certamente una di quelle personalità che patisce molto il passar del tempo, ai nostri occhi troppo spesso appare come un bizarro signore un po’ troppo pomposo e autoreferenziale per essere credibile.
E questo giudizio stinge spesso sugli aspetti più diversi della sua vita.
Sì, quell’immortalarsi glorioso tutto motti latini e svolazzi aulici: vien da pensare che ogni cosa in lui (passioni comprese) fosse artificio e immagine. Ma a volte per leggere davvero una persona è meglio soffermarsi sui particolari che sulla totalità del quadro, decifrare quello che possiamo capire davvero e basarci sul controllo di una piccola frazione del tutto per cercare di avere una statistica reale dell’insieme.
Noi ovviamente per riuscirci seguiamo le tracce dei cavalli: perché lo sport preferito del Vate era la caccia alla volpe, e per quanto si fosse romantico-decadenti seguire il marchese di Roccagiovine al galoppo nella campagna romana non non era di certo un hobby per finti cavalieri.
Partiamo dalle sue fotografie: lo stile sul salto è ovviamente pre-Caprilliano (gli anni più intensi del D’Annunzio in sella saranno quelli dal 1881 al 1910, si era formato ben prima dell’avvento del Sistema Naturale di Equitazione) ma i dati oggettivi parlano chiaro.
Saltava macerie notevoli e filagne da tre, la sua espressione nelle immagini prese ai meet della Società Romana è la stessa che ci bea quando passiamo una giornata felice in sella senza pensieri o preoccupazioni di alcun genere – postura rilassata, un sorriso a mezza bocca ma disteso e vero e quel sentirsi bene assieme a un cavallo che può davvero capire solo chi lo ha provato, almeno una volta.
Proseguiamo dei resoconti dei suoi contemporanei, concordi nel giudizio: D’Annunzio nei primi tempi era stato guardato con sufficienza dai soci storici della Romana, ma si era poi guadagnato sul campo il loro rispetto a suon di ruzzoloni sopportati stoicamente e galoppate coraggiose, intrepide nei fatti e non (soltanto) a parole.
Risultato? Vale la pena andarsi a cercare l’uomo, quello che si nasconde dietro un fraseggiare demodé e atteggiamenti superomistici ma che vuole esprimere pensieri reali, sentimenti veri e sentiti, per quanto paia schifare qualsiasi cosa possa sembrar comune – o forse solo banale. E vi stupirete: perché troverete qualcuno che somiglia anche a voi.
Aquilino
Il suo primo cavallo, ospite delle scuderie nel palazzo di famiglia a Pescara: era un sardo «…baio focato, balzan da uno, bevente in bianco». Era lui la passione del bambino Gabriele che avrebbe voluto dormirci assieme ma si doveva contentare di portargli qualche leccornia di contrabbando una volta esaurite le visite autorizzate quotidiane: è lui stesso a raccontarsi in quelle fughe notturne, con il grembiulino tenuto per le cocche pieno di mele o tocchetti di zucchero e Aquilino che lo chiamava con quel nitrito sommesso che i cavalli riservano solo agli amici veri, che sanno capirli e si fanno attendere con fiducia. Il bambino parlava sottovoce al cavallo che gli solleticava la mano mangiucchiando i suoi doni, come per non rompere un incanto che sembrava portarli in un mondo a parte. Un mondo che sembrerà voler abitare perchè esclusivo una volta adulto: ma che aveva scoperto nella semplicità della posta di un cavallo sardo baio focato, balzan da uno e bevente in bianco.
Il genio del marketing
D’Annunzio per tutta la vita metterà le sue capacità letterarie a disposizione delle più diverse operazioni di marketing: dagli acrostici atti a diventare slogan di ogni tipo di consociazione umana (dalle Società Ginnastiche alla Decima Mas) sino ai nomi commerciali di prodotti ancora oggi famosi (come i biscotti Saiwa) arrivando sino a qualche giovane romanziera italica: Liana Cambiasi Negretti fu da lui ribattezzata LiALA, giusto per sottolinearne la passione per l’aviazione. Ma l’operazione pubblicitaria più spregiudicata la riservò a se stesso: ancora collegiale spedì ai giornali una falsa notizia e finse di esser morto per una caduta da cavallo. Il risultato fu che attirò l’attenzione del pubblico sull’uscita della sua prima raccolta di versi (Primo Vere, del 1879) creando a bella posta una ondata di emotività legata alla sua immagine di talento precoce. Una mossa rischiosa, certamente: ma il talento del ragazzo era così genuino da sopportare questo e altro.
Da ricordare che fu sempre il Vate a chiamare il grande Gaspare Bolla “cavaliere perdutissimo”.
Tutti i cavalli del Vate, o quasi
Dopo Aquilino venne Murgione: era lui il letterario Silvano cui Gabriele dedicò qualche verso di Primo Vere. A dispetto del nome che evoca fastosi morelli pugliesi il Poeta lo descrive come un bell‘arabo grigio: difficile scoprire se la licenza poetica si limitò al nome. Aligi era un bel sauro codimozzo sfacciato e balzano da quattro con cui D’Annunzio andava in caccia, gran saltatore a giudicare dalle immagini che sono arrivate sino a noi e suoi compagni di scuderia furono Malatesta, Malatestino, Fedra e Undulna. Per non parlare di Prete, un pony morello che lo accompagnò spessissimo all’inseguimento della volpe o di El Nar, un arabo che gli venne regalato in Egitto in occasione di un suo viaggio con la Duse. Compagni di vita che lo aiutarono a percorrerla come piaceva a lui: mettendosi alla prova «…in galoppi severi, perché mi sembra così di secondare la mia ansia di vivere…ai confini di quanto può essere spresso dalla parola e alla soglia di ciò che deve esser compiuto dall’azione».
Appena fiorito come esposizione, forse: ma quanto vero, anche per noi e anche oggi.