Bologna, mercoledì 23 settembre 2020 – «Le Olimpiadi di Monaco 1972 me le sono davvero godute… ! Dormivo lì, in scuderia, anzi per la precisione nel fienile sopra la scuderia, in un sacco a pelo. Così stavo in mezzo ai cavalli senza interruzione, da quando mi svegliavo la mattina al momento in cui mi infilavo nel sacco a pelo la sera: e ho vissuto ogni singolo istante di tutte le gare, ho assistito nella maniera più completa possibile a questo grandioso spettacolo, è stata un’esperienza meravigliosa… !».
Potrebbero essere le parole di un ragazzino squattrinato che vive la sua passione per lo sport equestre in modo talmente viscerale da accettare la scarsa comodità di una sistemazione in un fienile e in un sacco a pelo pur di essere lì. Invece no. A parlare è Giuseppe Ravano: il quale al tempo dei Giochi Olimpici di Monaco 1972 lavorava già nell’impresa di famiglia dopo la tragica scomparsa di entrambi i genitori (il padre era un importante armatore), di anni ne aveva 29 – quindi ragazzino no, ma molto giovane sì – e soprattutto di Olimpiadi ne aveva già vissute due da atleta in gara… Non solo: salendo sul podio per ricevere la medaglia d’oro a squadre nel 1964 a Tokyo, nella specialità del completo! Proprio lui, Giuseppe Ravano, ‘quel’ Giuseppe Ravano: protagonista sotto la guida di Fabio Mangilli e insieme a Mauro Checcoli, Alessandro Argenton e Paolo Angioni di una delle più straordinarie pagine della storia dello sport equestre azzurro, il Giuseppe Ravano campione d’Europa individuale di salto ostacoli juniores nel 1958 ad Hannover (Italia argento) e nel 1960 a Venezia (Italia bronzo), dopo aver esordito nella manifestazione continentale nel 1957 a Londra con l’Italia medaglia d’argento. Pensate: dal 1957 al 1964 una collezione di ben sei medaglie tra cui quella d’oro alle Olimpiadi… !
Dal salto ostacoli al completo: come è accaduto?
«Dopo l’esame di maturità sono andato un paio di volte a Flumignano a casa del marchese Fabio Mangilli, lui e mio padre erano amici. Mangilli mi aveva già avuto sotto le sue direttive durante il Campionato d’Europa di salto ostacoli juniores a Venezia nel 1960, quindi mi conosceva come cavaliere. L’obiettivo olimpico attirava moltissimo mio padre e ovviamente anche me, ma in salto ostacoli era un progetto poco praticabile vista la presenza di assi quali i due fratelli d’Inzeo e Graziano Mancinelli, non è che ci fosse molto spazio… Così grazie anche all’influenza di Fabio Mangilli ho cominciato ad appassionarmi all’idea di montare in completo».
Ma aveva già avuto qualche esperienza in completo prima?
«Solo il Saggio delle Scuole, ma niente di più. Noi stavamo a Genova e lì per noi, chiusi come eravamo tra mare e collina, non esisteva la possibilità di praticare il completo, anche ammesso che me ne fosse venuta la voglia».
Quindi è stato Fabio Mangilli a portarla a questa specialità?
«Sì, a Flumignano ci siamo conosciuti un po’ di più e lui a un certo punto mi ha proposto di andare a montare ai Pratoni del Vivaro per seguire la preparazione olimpica. Così alla fine dei miei 19 anni sono andato al Centro Equestre Federale: i primi ad arrivare lì siamo stati io, Amelio Meneghetti e Mauro Checcoli, poi più tardi ci hanno raggiunto anche Sandro Argenton, Paolo Angioni e Paolo Rasero».
Cominciavate a pensare davvero alle Olimpiadi, dunque…
«Sì, certo, ci pensavamo un po’ tutti… Io però avevo grandi debolezze in addestramento, in rettangolo, nel lavoro in piano: il mio istruttore, il maresciallo Bembo, mi aveva impostato in modo un po’ approssimativo, pensando sempre alla vittoria in campo ostacoli, e in effetti avevo vinto abbastanza, ma senza raffinatezza. Mangilli mi ha ricostruito e devo ammettere di aver fatto molta fatica in questa opera di ricostruzione, sono andato contro l’istinto e il modo di montare dei miei primi anni».
Poi a Tokyo siete andati davvero, per ottenere un risultato favoloso: come ha vissuto quell’esperienza?
«Io sono sempre stato molto orgoglioso di poter rappresentare l’Italia, tutte le volte che avevo la bandierina tricolore sul sottosella. Quella bandierina mi trasformava, per fortuna in meglio: mi dava una capacità di concentrazione maggiore rispetto al solito. Quindi ero tranquillo, non avevo grossi timori nell’affrontare una gara così impegnativa. Inoltre eravamo tutti molto consapevoli del fatto che il marchese Mangilli ci aveva preparato molto bene, in modo molto accurato: io poi ad ogni percorso di cross mi segnavo tutto su un quadernetto di appunti, ogni minimo dettaglio, dove c’era una pietra o dove il terreno era libero da sassi, dove c’era la possibilità di tagliare anche solo un pochino… tutto, insomma».
Come era l’atmosfera tra voi durante quei giorni?
«Eravamo molto sereni, molto legati tra noi da una stretta amicizia e grande stima reciproca. Abbastanza convinti del fatto nostro. Certamente non pensavamo di arrivare a un risultato così importante però eravamo tranquilli, ritenevamo di essere preparati bene».
E dopo? Sentirsi campione olimpico… la medaglia d’oro… che sensazioni le ha dato tutto questo?
«Ma io sono sempre stato uno con i piedi ben piantati per terra. Sì, naturalmente il clamore per una vittoria così importante un po’ su di giri ci ha portato, ma non mi sono mai inebriato più di tanto, io non sono il tipo».
Che genere di cavallo era Royal Love, suo compagno di gara a Tokyo?
«Ho cominciato a montarlo alla fine del 1963. Era un cavallo molto qualitativo. Aveva del carattere. Facile per quel mestiere, galoppava molto bene. In rettangolo non era un granché nemmeno lui, non era certo favorito né dai movimenti né dall’elasticità, non dava nell’occhio, insomma, e io non sono stato certo il cavaliere capace di valorizzarlo al meglio: fino a prima di incontrare il marchese Mangilli la mia preparazione in piano era quella di un ragazzino che aveva fatto al massimo il Saggio delle Scuole, due allungate, due partenze al galoppo, alt, saluto… Infatti dopo la prova di addestramento a Tokyo eravamo al 36° posto se non ricordo male».
In campagna invece?
«In campagna sapeva il fatto suo. A Tokyo è andato bene, ha fatto solo un rifiuto su un talus preceduto da un bel fosso, non era difficile ma abbastanza grosso: poi sono tornato e lui si è arrampicato sopra molto bene. Royal Love in effetti aveva solo un problema sui fossi e sulle riviere: spesso ci entrava dentro! Poi devo riconoscere che io avevo parecchio mestiere in salto ostacoli, cosa che mi è servita molto anche in cross, soprattutto sugli ostacoli più complicati».
Dopo Tokyo ci sono state le Olimpiadi di Città del Messico: ma tra l’una e l’altra lei non ha avuto molti risultati…
«Perché ho quasi smesso di montare. Ho lavorato a Londra per alcuni mesi in una società corrispondente della nostra di Genova, e poi al mio ritorno ho cominciato a lavorare nella società di famiglia. Così per tre anni e mezzo ho montato uno o due cavalli ma direi a livello amatoriale, e solo in salto ostacoli».
E quindi il Messico… ?
«Nel mese di marzo 1968 il marchese Mangilli mi ha detto: che ne diresti di pensare alle Olimpiadi, hai mica voglia di riprovare? Malgrado lavorassi mio padre e mio fratello erano pienamente d’accordo sul fatto che io prendessi una pausa in vista delle Olimpiadi e così sono tornato da Londra per cominciare la preparazione».
Poco dopo però la tragedia…
«Sì… Mia mamma e mio papà sono mancati insieme a causa di un incidente stradale. Sul colpo. Il 13 luglio. Ci siamo improvvisamente ritrovati in otto fratelli senza genitori. Io il maggiore: avevo 25 anni, il più piccolo 6».
Una situazione da incubo… terribile…
«Per fortuna mio fratello nel lavoro era molto capace. Abbiamo venduto le ultime tre navi nel 1973 e in seguito ci siamo dedicati alla carriera di broker marittimi: eravamo troppo scottati dagli alti e bassi del mestiere armatoriale, cosa che a quei tempi aveva fatto fallire diversi armatori a Genova. Quindi abbiamo ripreso dal piccolo, anche perché avendo a carico una famiglia di otto persone non potevamo certo fare dei voli troppo pindarici. Nel 1977 mio fratello ha aperto l’ufficio di Losanna, in Svizzera, e io l’ho raggiunto dieci anni dopo per poi rimanere definitivamente lì, dove vivo tuttora».
Ma tornando al Messico… non deve essere stato facile…
«Eh sì, la situazione era di grande difficoltà e incertezza sul da farsi. Ma alcune persone che mi erano particolarmente vicine mi hanno aiutato molto: devi fare come se ci fossero loro, se pensi che ai tuoi genitori avrebbe fatto piacere devi andare… Alla fine così ho fatto: sono andato».
Quelle Olimpiadi non sono andate bene per l’Italia del completo, anche per cause extra sportive con quel tremendo nubifragio il giorno del cross: non le è venuta voglia di puntare quindi a Monaco 1972?
«In effetti dopo il Messico ho continuato a montare con una certa regolarità, ma a un certo punto mi sono reso conto che il forte impegno con lo sport e con il lavoro andava a detrimento di entrambi: lavoravo con fatica e montavo con fatica, senza quindi riuscire ad avere il rendimento ottimale né nell’una cosa né nell’altra. E così ho deciso di non rimettermi più in gioco con lo sport».
Però poi a Monaco ci è andato: con il sacco a pelo nel fienile… !
«È stato bellissimo. Mi sono goduto le Olimpiadi come non avevo potuto fare né in Giappone né in Messico, essendo in quelle occasioni atleta impegnato in gara. Mi sono gustato ogni singola ora di ciascun giorno del programma olimpico. Ho visto tutto, è stato uno spettacolo meraviglioso, la medaglia d’oro di Graziano Mancinelli e quella di bronzo dell’Italia in salto ostacoli e quella d’argento di Alessandro Argenton in completo sono state imprese esaltanti!».
In seguito si è definitivamente e completamente allontanato dal mondo dei cavalli, quanto meno nel ruolo di cavaliere.
«Sì, ho avuto anche alcuni problemi fisici a una caviglia che mi è stata bloccata e che quindi è del tutto irrigidita, quindi niente… Però pur se da lontano continuo a seguire tutto quello che succede, qui in Svizzera i concorsi ippici li vado a vedere, seguo molto insomma».
Non le manca un po’ l’Italia?
«I concorsi importanti italiani li vedo tutti grazie ai live streaming. Però l’Italia… molto, non poco… l’Italia mi manca molto, moltissimo. Sto veramente bene qui a Losanna, però mi manca Genova e mi manca la vita del nostro sport».