Roma, 4 novembre 2020 – Oggi è la Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate, una festa che chi scrive per voi queste righe ama parecchio.
Perché quando ero piccola il 4 novembre a Modena, la mia città, le scuderie dell’Accademia aprivano le loro porte a tutti i cittadini e per me era una delle poche occasioni in cui potevo guardare da vicino e toccare i cavalli veri.
Ricordo benissimo un saurone enorme, si chiamava Tirreno: aveva una lunga lista che gli arrivava sino al labbro (sì, poi ho imparato che si dice “bevente in bianco” ma allora non lo sapevo).
Era lì in mezzo al cortile legato alla capezza, e ve lo giuro: sembrava che aspettasse proprio me.
Poi, cavalli a parte: è bello avere un giorno in cui ricordare chi è morto con addosso una divisa, un’uniforme italiana.
Perché la stragrande maggioranza delle volte erano uomini che non pensavano né alla politica, e nemmeno alla gloria.
Erano persone normali, come noi, come i nostri figli e i nostri fratelli, i nostri nipoti e i nostri padri.
Che vedevano il servizio militare come una scocciatura nel migliore dei casi, e con il terrore di lasciarci la pelle nel peggiore.
Ma una volta che se la trovavano addosso, quella divisa o quell’uniforme, hanno fatto il meglio che potevano fare.
Non è la festa di empirei e ideali eroi, è quella di poveri cristi che non hanno più rivisto le loro famiglie: e del perché e del per come non ha nessuna importanza, importa solo che sicuramente hanno fatto tutto quello che potevano per rimanere le persone che erano anche prima della guerra.
Brave persone, i più, indipendentemente dalle idee politiche personali.
Per cui sento particolarmente questa cerimonia, il Presidente della Repubblica con i suoi Corazzieri porta una corona di alloro sulla tomba del Milite Ignoto: e aggiusta sempre il nastro tricolore con una attenzione gentile, e per me è quello il momento più toccante di tutta la giornata.
Come se aggiustare la piega di un nastro potesse farli stare un po’ meglio, tutti, quelli che sono caduti con quella uniforme o quella divisa addosso.
Non lo so, in fondo anche accendere una candela forse non ha tanti effetti pratici: ma è comunque un modo per esprimere un pensiero, un significato, un bisogno di fare qualcosa anche se piccolissimo.
Ma che sia fatto per quelle persone lì, che non ci sono più e sono rappresentate da un soldato morto più di cent’anni fa.
Il Milite Ignoto venne scelto tra undici militari italiani sconosciuti caduti sui campi di battaglia di Rovereto, le Dolomiti, gli Altipiani, il monte Grappa, Montello, il Basso Piave, il Cadore, Gorizia, il Basso Isonzo, il monte San Michele e Castagnevizza del Carso.
A decidere quale tra le undici salme avrebbe rappresentato tutti i soldati italiani caduti fu Maria Bergamas, madre di un soldato triestino morto e disperso a Tonezza del Cimone, sull’Altopiano dei Sette Comuni.
C’è una sua fotografia del 4 novembre 1921, quando la salma del Milite Ignoto arrivò all’Altare della Patria: era presente come invitata speciale insieme alle altre madri di soldati morti nella Grande Guerra.
Una mamma dai capelli grigi, gli occhi di non si lascia impressionare da tante trombe, medagli e cerimonie, le scarpe che dentro ci vedi tutti i passi di una vita faticosa e lontana mille milioni di miglia da medaglie, bandiere e discorsoni.
Ma noi dobbiamo parlare di cavalli, vero?
Quale occasione migliore per saperne di più sulla Quadriga dell’Unità al Vittoriano, a Roma.
É uno dei due gruppi in bronzo che dominano il monumento a Vittorio Emanuele II, più precisamente quello collocato sul pronao di destra.
Fu eseguito dallo scultore Carlo Fontana in 20 anni di lavoro, lo terminò nel 1928 e per la sua Vittoria alata prese a modello i lineamenti di Vittoria Colonna, moglie del Duca di Sermoneta Leone Caetani.
Vittoria montava a cavallo sin da bambina, era nata a Londra nel 1880 e la madre, Teresa Caracciolo, era figlia dell’inglese Leila Lock.
La futura Duchessa di Sermoneta aveva preso le prime lezioni in sella al suo pony Snowdrop da Amos Carrier, il cocchiere di Lord Walsingham (marito di sua nonna materna) nei lunghi periodi passati nella residenza di questi, Merton Hall.
Nonostante qualche incidente di caccia, Vittoria Colonna montava spesso e volentieri tanto che il pittore Umberto Boccioni.
Il pittore per breve tempo ebbe con lei una relazione affettuosa, e si applicò a diventare un buon cavaliere anche per amor suo.
Purtroppo Boccioni morì il 17 agosto 1916 dopo essere caduto da cavallo: in quei giorni era preoccupato per la mancanza di notizie da parte della duchessa
Solo il giorno prima l’artista aveva scritto: “Non comprendo! Vivo in un orgasmo che non mi dà pace. Non ho nemmeno la forza di stare a cavallo… In che cosa ho mancato?”.
E’ il 4 novembre: stiamo insieme, tutti.
Qui un monumento che racconta un po’ del periodo precedente la Grande Guerra, giusto per avere un quadro più completo.