Padova, 21 febbraio 2018 – Partivo in bicicletta da casa e dopo due minuti ero in maneggio. Alla Scuola Padovana di Equitazione. Salivo le scale e mi andavo a sedere in tribuna. Mi mettevo in un angolino, per stare ai margini: se fosse arrivato qualcuno non avrei saputo cosa dire e di cosa parlare. Non avrei nemmeno potuto, poi, perché l’emozione e la tensione erano già forti nel momento in cui salivo le scale… Mi sedevo in un angolo, quindi. Ero già pronto: il cap in testa, gli speroni calzati, i guanti indossati, il frustino in mano. Ero ridicolo, in effetti, ero la più eloquente dimostrazione del principiantello impacciato e goffo: ma non me ne rendevo conto e se anche me ne fossi reso conto non me ne sarebbe importato. Tutto quello che volevo in quel momento era essere lì per guardare e sentire e ascoltare. La prima ripresa cominciava alle 14.30. La seconda alle 15.30. La terza alle 16.30. La quarta era la mia: alle 17.30. Io me ne stavo seduto in tribuna quindi dalle 14.30 fino alle 17. Fermo, seduto, immobile. E preso da sensazioni che erano un misto di terrore, voglia, desiderio. Non pensavo a nient’altro, non mi preoccupavo di nient’altro; il tempo per studiare e fare i compiti ci sarebbe stato dopo: la sera e la notte erano lunghe…
Le prime due riprese le faceva il maestro Efisio Murtas. Le seconde due il maestro Giovanni Cinti. Di Murtas mi spaventava il solo pronunciare il cognome: così duro, secco, aspro. E poi mi spaventavano le sue riprese: perché erano quelle in cui si facevano le cose più difficili, quelle in cui montavano gli allievi della squadra agonistica, i ragazzi proprietari dei loro cavalli, e lui era severissimo, esigente, intransigente. Io mi sentivo anni luce lontano da quella situazione: una situazione che mi terrorizzava e mi attraeva allo stesso tempo e alla quale pensavo che non sarei arrivato mai. Guardavo quella ripresa rigido sulla mia sedia stringendo il frustino in mano e pensando di non aver nulla a che fare con tutto ciò: eppure ero seduto lì, costretto da una forza che quasi non era della mia volontà e del mio pensiero. I ragazzi e le ragazze che montavano nella ripresa del maestro Murtas mi sembravano appartenere a un altro mondo: se mi capitava di incrociare qualcuno di loro giù in scuderia non gli rivolgevo la parola, venendo a mia volta totalmente ignorato. Efisio Murtas aveva il naso leggermente aquilino, era scuro di carnagione, sorrideva quasi mai: il suo accento sardo contribuiva a rendere la sua figura ancora più dura e severa. Durante le sue lezioni gli unici rumori che si sentivano in maneggio erano il suono del movimento dei cavalli e quello della sua voce. Una voce che spesso si inaspriva raggiungendo sonorità che mi raggelavano il sangue nelle vene: quando Efisio Murtas esplodeva in veri e propri accessi di ira poteva anche prendere il suo berretto e scagliarlo a terra con violenza, oppure lanciare una stampella contro i cavalletti che stavano lì vicino a lui. Sì, una stampella, certo: io non sapevo e non capivo, io ero un ragazzetto goffo e ignorante, come avrei potuto…
Come avrei potuto sapere e capire, del resto, che quella stampella lanciata a terra era un atto di ribellione di un uomo contro un destino che l’aveva costretto a essere ciò che lui mai avrebbe voluto essere, un destino che gli aveva menomato il corpo rendendolo inabile a fare quello che lui, Efisio Murtas, aveva fatto per tutta la sua vita e cioè montare a cavallo… Lui, sardo duro e forte come una quercia, cavaliere meraviglioso a suo tempo conosciuto da tutto il mondo del salto ostacoli solo dopo che il regolamento nazionale aveva permesso ai sottufficiali di prendere parte ai concorsi ippici e fino a quel momento instancabile produttore di cavalli in seguito divenuti famosi sotto la sella di campioni (e ufficiali) come Piero d’Inzeo o Salvatore Oppes o Antonio Gutierrez solo per dirne alcuni… lui, che sarebbe stato scelto dalla Fise per dirigere i ritiri dei ragazzi selezionati per partecipare al Campionato d’Europa juniores fin dai primi passi della manifestazione continentale nel 1952 a Ostenda, ritiri collegiali della durata di diverse settimane e da lui gestiti in ogni minimo particolare non solo di carattere prettamente tecnico ed equestre, ritiri che hanno avuto come protagonisti ragazzi come Alberto Riario Sforza, Graziano Mancinelli, Giampiero Bembo, Alberto Salvati, Salvatore Danno, Mauro Checcoli, Edoardo Lucheschi, Franco Scala… lui che nelle classifiche dei concorsi degli anni Cinquanta era spesso davanti ai nomi dei nostri migliori campioni in sella a cavalli che si sono chiamati via via Somalo, Mercurio de Sardara, Perla de Porto Conte, Leila de Samassi, Sirenella, Rondone, Thea III, Fanion, Zaquilo… ecco, lui quella stampella la lanciava a terra con violenza per la rabbia di non poter essere in sella, di non poter dire ai suoi allievi vieni qui che monto io un attimo, di non potersi nemmeno muovere con agevolezza. Io non sapevo e non capivo: per me il maestro Efisio Murtas era solo e soltanto la massima autorità possibile dentro il mondo nel quale avrei voluto vivere, certo però del fatto che mai ci sarei riuscito. Perché io guardavo le riprese del maestro Murtas con voglia e con paura contemporaneamente, però al tempo stesso consapevole del fatto che di lì a poco sarei stato accolto dal papà buono Giovanni Cinti, dolce e affettuoso e comprensivo e delicato… Però io in cuor mio, in fondo all’animo mio speravo un giorno di poter montare a cavallo alle 14.30…
Quando i problemi all’anca si ammorbidirono – senza peraltro risolversi mai – Efisio Murtas abbandonò le stampelle e adoperò un semplice bastone di legno. Con quello camminava più agevolmente: zoppo, ma camminava. Nel frattempo io ero effettivamente arrivato a montare alle 14.30… Il cammino percorso per arrivare lì, alla ripresa delle 14.30, mi aveva insegnato a conoscere una persona che da quel momento e fino a oggi ho amato e amo come un padre. Un padre, sì. Mio papà – quello vero – è morto a quarantadue anni, quando io ne avevo nove. Per me un dolore fino ad allora sconosciuto e ovviamente terribile. Un giorno, dopo una gara sociale che avevo vinto nella mia categoria, successe una cosa. Quando fu il momento della premiazione, a piedi, in maneggio, vidi il maestro Murtas avvicinarsi alla persona che doveva consegnare i premi e dire qualcosa. La persona passò al maestro Murtas la piccola coppa destinata al vincitore. Il maestro Murtas venne zoppicando verso di me senza modificare di un millimetro l’espressione dura e severa del suo volto. Io mi tolsi il cap e mi irrigidii. Il maestro Murtas mi consegnò la coppa e disse: «Questa è di tuo padre». Io non dissi una parola, pietrificato. Non avevo mai parlato al maestro Murtas di mio padre, figuriamoci. Non avevo mai parlato di nulla al maestro Murtas, mai. Eppure.
Un giorno d’estate stavamo lavorando in piano nel campo in sabbia: il gruppo dei binomi che qualche settimana più tardi avrebbero partecipato al Saggio delle Scuole. Il maestro Murtas ci aveva lasciato in lavoro a volontà, ed era andato a sedersi fuori, appoggiato al talus. Ci guardava. Nicoletta stava montando il suo Ittiri, un cavallo sardo fenomenale che nelle gare cui partecipavamo noi – quelle che allora erano le E e le F – era praticamente inarrestabile e soprattutto non toccava mai una sola barriera. Era piccolino, in quel momento anche un po’ grassottello: in piano non era un granché, il suo movimento al trotto era molto poco espressivo, la sua corta incollatura rimaneva sempre un po’ rigida, la bocca chiusa… insomma, si sapeva che in rettangolo non avrebbe avuto un buon punteggio. Nicoletta del resto rispettava al massimo quello che sembrava un modo e un atteggiamento immodificabile del suo cavallo: tanto poi in campo ostacoli Ittiri saltava con una regolarità e un’efficacia sempre sorprendenti (parentesi: allora Ittiri era un cavallo non vecchio ma certo un po’ avanti con gli anni, ma poi venne acquistato da Giuseppe Corno diventando un formidabile vincitore in gare di alto livello nazionale). Lavoravamo in piano con il massimo della concentrazione sotto l’occhio attento e vigile del maestro Efisio Murtas. A un certo punto lui si alzò ed entrò in campo chiamando Nicoletta. Le disse solo: «Smonta». Ci fermammo tutti. Non potevamo credere ai nostri occhi. Murtas consegnò il bastone a Nicoletta e le disse dandole le gamba: «Aiutami per favore». Il maestro vestiva i jodhpur con un paio di stivaletti bassi di cuoio. Nicoletta aiutò il maestro Efisio Murtas a montare in sella. Nessuno di noi aveva mai visto il maestro Murtas a cavallo. Mai. Mai. Ci sembrò uno spettacolo stupefacente. Qualcosa che non era mai accaduto, qualcosa che nemmeno si pensava potesse accadere e che invece adesso accadeva. Murtas era il nostro idolo, il nostro riferimento, era per molti di noi – per me di certo – il catalizzatore delle nostre passioni, dei nostri pensieri, del nostro timore e della nostra audacia: ma lui era l’uomo che stava a piedi. E invece adesso lo vedevamo a cavallo per la prima volta nella nostra vita. Ci sembrava la rivelazione di un mistero grandioso: non era semplicemente un uomo a cavallo, ovviamente, bensì molto di più, infinitamente di più. Efisio Murtas non disse niente, noi rimanemmo in silenzio contemplativo, immobili in sella ai nostri cavalli immobili. Apparentemente non successe nulla. O meglio: quello che successe accadde in progressione talmente morbida e digradante che quasi non ci accorgemmo che in effetti in Ittiri stava cambiando tutto. Al passo. Solo al passo. Pian piano Ittiri cominciò a modificarsi nonostante Efisio Murtas in apparenza non stesse facendo assolutamente niente: la schiena si sollevava facendo sembrare il cavallo addirittura più magro, l’incollatura si distendeva in avanti sembrando perfino più lunga e arrotondando leggermente il suo profilo superiore, la bocca scendeva verso il basso masticando il filetto e divenendo schiumosa, le spalle cominciavano ad ampliare il movimento in avanti marcando distintamente i tempi del passo mentre gli zoccoli posteriori sembravano voler raggiungere quelli anteriori. Murtas era immobile con le mani: semplicemente seguiva la bocca di Ittiri ma sempre contenendolo un po’, concedendo ma senza mai abbandonare un contatto continuo e costante a redini tese e mai in tensione. Dopo circa quindici minuti di lavoro al passo alle due mani Murtas si fermò al centro del campo e chiese a Nicoletta di aiutarlo a smontare. Poi le disse: «Adesso fai un po’ di lavoro al galoppo a mano destra e a mano sinistra. Lavora sulle transizioni: galoppo, trotto riunito, passo, alt e viceversa. Circoli e cambiamenti di mano». Quindi il maestro Efisio Murtas camminò lentamente verso l’uscita del campo, più lentamente del solito e sostenendosi sul bastone con maggiore evidenza del solito, e tornò ad appoggiarsi al bordo del talus. Era pomeriggio tardo: il sole stava scendendo, il caldo stava calando, e noi avevamo assistito a uno spettacolo meraviglioso. Ittiri galoppava come mai l’avevamo visto fare.
Il tempo, probabilmente. Ciò che ha reso possibile la crescita di un rapporto con il maestro Efisio Murtas sempre contenuto e riservato ma profondo, pochissime parole e moltissimi fatti: il trascorrere del tempo, certo. Nessuna smanceria, figuriamoci, nessuna concessione ai sentimenti e alle emozioni, nessuna parola di troppo, gesto di troppo, pensiero di troppo. Perfino quando andavo con il suo Garelli rosso a fare il pieno di miscela il maestro Efisio Murtas mi diceva un grazie molto trattenuto: ma io sapevo cosa voleva dire quel grazie, perché lui di andare a fare il pieno al suo Garelli rosso lo chiedeva sempre e solo a me. Stavamo insieme fino a tardi anche dopo la chiusura della scuola: io con il trattore passavo l’erpice nei campi in sabbia e poi spostavo pilieri e barriere per preparare il lavoro per l’indomani sotto le sue direttive. Poi facevamo l’ultimo giro in scuderia per sincerarci che tutto fosse in ordine. Poi il maestro Murtas prendeva il suo Garelli rosso e io la mia bicicletta verde e ci avviavamo verso casa facendo un pezzo di strada insieme. Lui andava piano, con il bastone agganciato al manubrio. Io gli pedalavo a fianco. Quasi sempre senza parlare.
Successe un giorno di autunno. Stavo mettendo le stinchiere al mio cavallo. Eravamo in preparazione per il Saggio delle Scuole del 1978. Il maestro Efisio Murtas era ricoverato in ospedale: noi lavoravamo sotto le direttive del nostro istruttore in seconda, Evaristo Mele. Mele, anch’egli sardo, era una bravissima persona ma non aveva né il carisma né la competenza e di certo nemmeno la bravura di Efisio Murtas, anche perché era molto ma molto più giovane di lui. Per noi era una specie di compagno che stava a piedi nel darci qualche utile consiglio. Mentre stavo allacciando l’ultima fibbia della stinchiera con il mio cavallo legato ai due venti entrò in scuderia Mele e si fermò a qualche metro da me senza dire nulla, immobile. Io lo guardai e mi alzai. Aspettai che lui parlasse con l’espressione interrogativa di chi si prepara ad ascoltare. Mele aveva la faccia di chi vuole dire un qualcosa e non sa come dirlo. Ci guardammo per qualche secondo negli occhi. Alla fine Mele disse: «Murtas è morto», e si voltò uscendo rapidamente dalla scuderia. Io stetti lì in piedi. Fermo. Inebetito. Ero assolutamente convinto che una cosa del genere non sarebbe mai successa per tutto il resto dei miei giorni e della mia vita e per sempre. Invece.