Bologna, 22 gennaio 2025 – Cosa vuoi fare da grande? Andare alle Olimpiadi. Ecco: la tipica domanda e la tipica risposta che si fa e che si riceve parlando con un ragazzino che pratica uno sport. Sembra così facile, quando si è piccoli, andare alle Olimpiadi… Eppure qualche ragazzino da grande ci va davvero. E qualche ragazzino – pochi, in percentuale… – vince anche una medaglia. E qualcuno di questi – pochissimi, in percentuale… – la vince perfino d’oro! Come Christian Kukuk, tedesco, nato il 4 marzo 1990 e dunque 35 anni tra poco.
Se le avessero predetto che lei un giorno non solo sarebbe andato alle Olimpiadi, ma avrebbe per giunta vinto… ?
«No, impossibile, figuriamoci! Non l’avrei mai creduto possibile… ma nemmeno avrei osato solo pensarla una cosa del genere… ».
Christian Kukuk lo dice con il tono di chi risponde a qualcuno che gli ha appena chiesto se lui sia capace di respirare sotto acqua… oppure di agitare le mani e volare… Eppure è successo: Christian non respira sotto acqua e non vola agitando le mani, ma in sella a Checker ha vinto la medaglia d’oro individuale in salto ostacoli ai Giochi Olimpici di Parigi 2024. Ha raggiunto quindi quel traguardo che a qualunque atleta di qualunque sport garantisce la gloria per sempre.
E dire che Christian Kukuk da piccolo avrebbe voluto fare il calciatore… Però essendo nato da due genitori impegnati in salto ostacoli e in dressage, e avendo casa a Warendorf (il cuore del mondo dello sport equestre della Germania dove sorge il Centro Nazionale della federazione tedesca), sarebbe stato piuttosto difficile rimanere impermeabile al fascino dei cavalli e dello sport equestre.
«Ho iniziato a montare a cavallo a Warendorf nella locale scuola di equitazione in cui avevamo una piccola scuderia con sei o sette cavalli. Mia mamma mi ha insegnato le cose di base, poi quando sono stato capace di affrontare i primi piccoli percorsi è subentrato mio papà. Ma il mio istruttore principale e più importante è stato Ludger Schulze Niehues: lui aveva una scuola di equitazione piuttosto famosa vicino a Warendorf, dove all’inizio andavo una volta alla settimana, poi due volte alla settimana… alla fine ogni giorno appena finita la scuola… Ludger Schulze Niehues ha avuto un ruolo importantissimo nella mia formazione, si è dedicato a me con grande intensità… ».
Forse perché aveva intuito in lei qualità particolari… E per lei era già chiaro allora che la sua vita sarebbe stata totalmente dedicata ai cavalli?
«No, ovviamente no in principio, però tutto il tempo disponibile lo trascorrevo con i cavalli, montando, stando in scuderia, andando in concorso… Pian piano ho iniziato ad avere anche qualche successo ed è stato allora che mi sono reso conto che avrei voluto fare di tutto questo la mia professione».
I suoi primi risultati internazionali di una certa importanza sono del 2012: è iniziato tutto da lì?
«Sì, l’anno in cui ho cominciato a montare da Ludger Beerbaum. Fino a quel momento avevo fatto solo gare nazionali oppure categorie per cavalli giovani».
La sua carriera è decollata grazie al suo impiego nella scuderia di Ludger Beerbaum: come è nato il rapporto con lui?
«Un caro amico dei miei genitori mi ha fatto avere il suo numero di telefono: e io l’ho chiamato… ».
Così? Semplicemente… ?
«Sì, così. Gli ho spiegato chi ero, gli ho descritto la mia situazione… Ludger mi ha dato un appuntamento da lui in scuderia a Riesenbeck per qualche giorno più tardi. Ci siamo visti, ci siamo seduti e abbiamo parlato credo non più di dieci minuti… e alla fine avevamo un accordo».
Che tipo di accordo?
«L’accordo prevedeva che io avrei iniziato a lavorare per lui il primo giorno di febbraio di quell’anno e… eccomi qui!».
Sì, ma nel dettaglio in cosa consistevano i suoi compiti?
«Avrei avuto la responsabilità di sei cavalli: uno aveva tre anni, uno quattro, uno era mio, uno era di Ludger che doveva rimettersi in lavoro dopo un infortunio e io lo dovevo riallenare… poi altri due cavalli giovani. Ludger controllava tutto ma in questa fase iniziale stavo abbastanza per conto mio. I primi due mesi li ho trascorsi in una scuderia lì vicino perché quando ho iniziato non c’era posto da Ludger: poi mi sono trasferito quando da Ludger è stata terminata la nuova scuderia di Philipp (Weishaupt, n.d.r.) e lui vi si è spostato con i suoi cavalli lasciando libera quella che aveva occupato fino a quel momento».
Non c’era nessuno che la seguisse nel lavoro in sella?
«Quando Ludger, Marco, Henrik e Phillip andavano in concorso (Beerbaum, Kutscher, von Eckermann, Weishaupt, n.d.r.) veniva a far lavorare tutti noi che rimanevamo a casa Hermann Josef Kloepper. Mezza giornata durante tutti i giorni del fine settimana. Io a Riesenbeck ho cominciato a saltare con lui».
Quali sensazioni all’inizio?
«Ludger Beerbaum era il mio idolo. Ero così orgoglioso di poter lavorare da lui… Ho cercato di imparare qualcosa da ogni singolo secondo del mio tempo lì, a Riesenbeck. Non è stato facilissimo perché il lavoro era duro e le giornate pareva non finissero mai… Ma sono sempre stato molto concentrato sul tentativo di trarne il maggior beneficio possibile per me stesso, fin dal primo secondo di ogni giornata».
Mai avuto dubbi, timori, paure, insicurezze… ?
«Ero abbastanza sicuro, ma ci sono sempre momenti in cui si dubita di sé stessi, in cui ci si domanda se quello che si sta facendo sia effettivamente la cosa giusta… ma così è la vita. La vita non è solo successo e felicità… Per avere successo e felicità bisogna lavorare duro. È inevitabile che ci possano essere anche momenti brutti, ma bisogna usarli come strumenti per imparare: l’unico modo per avere successo è affrontare i momenti negativi determinati a superarli comprendendone la natura e la dinamica».
C’è stato un momento specifico in cui ha capito di essere sulla strada giusta in quello che stava facendo?
«Direi il mio primo Campionato di Germania, nel 2013: su più di sessanta partenti sono riuscito a qualificarmi per la finale dei migliori venticinque e… ecco, sì, quello è stato il momento in cui mi sono reso conto di riuscire a reggere la pressione, di poter competere a quel livello, e quindi di poter andare avanti».
Qual è la cosa più importante che ha imparato da Ludger Beerbaum, quella che lui le ha trasferito in modo più efficace?
«Esperienza. La sua esperienza. In tutto».
È enorme Il numero di medaglie internazionali vinte da lui e dai cavalieri della sua scuderia, cioè tutti voi…
«Sì, credo che nessuna scuderia al mondo possa dire di aver vinto altrettanto».
Come si svolge la sua giornata tipo a Riesenbeck?
«È organizzata in modo molto semplice: mi alzo presto, inizio a montare, poi faccio una pausa per lavorare un po’ in scuderia, poi riprendo a montare. E poi ricomincio il giorno dopo… Le giornate sono lunghe e faticose ma io sono felice».
Ma come siete organizzati… ogni cavaliere ha una sua scuderia?
«Sì, esatto. E ognuno di noi è responsabile di un certo numero di cavalli. Ludger naturalmente, poi io, il cavaliere irlandese Eoin McMahon (il quale recentemente ha lasciato Riesenbeck per mettersi in proprio, n.d.r.), Philipp Weishaupt, più altri due giovani irlandesi che condividono la stessa scuderia».
Montate insieme durante il lavoro a casa oppure in modo indipendente?
«Qualche volta si lavora con Ludger, ma di norma ognuno fa per sé. Ovviamente se c’è qualche problema si va da Ludger e se ne parla, ma lui non è il tipo che se ne sta fermo in piedi in mezzo al campo tutto il giorno a far lezione… La regola è che prima di tutto siamo noi a dover badare a noi stessi».
Una figura determinante in tutto ciò è probabilmente la signora Madeleine Winter-Schulze…
«Non direi determinante, direi proprio fondamentale. Per Ludger, per la vita di tutta la scuderia, per tutti noi. Marco (Kutscher, n.d.r.), Henrik (von Eckermann, n.d.r.) e io abbiamo sempre montato cavalli di proprietà di Madeleine Winter-Schulze. Anche Checker è suo».
Vi segue molto da vicino? È partecipe della vita della scuderia?
«Sì, assolutamente. Viene spesso in scuderia, ma soprattutto ci segue sempre in concorso. Sempre».
Parliamo di Checker: che tipo di cavallo è?
«Molto calmo, gli piace avere la sua vita privata in box, molto rilassato a casa fino a essere quasi pigro, facile da gestire, sereno e tranquillo in paddock. Ma in concorso si trasforma, diventa eccitato, motivato, non ha paura di nulla, intelligente, sa quello che deve fare e si concentra al massimo. È perfettamente consapevole del momento in cui si deve affrontare la gara, diventa perfino più grande… ».
Fino a tutto il 2023 il numero uno nella sua scuderia è stato Mumbai…
«Mumbai è un cavallo molto importante: con lui ho fatto la mia prima Olimpiade a Tokyo, ho vinto il mio primo GP a cinque stelle, ho fatto il mio primo Campionato d’Europa, ho vinto la mia prima medaglia internazionale… Un cavallo per me tuttora importantissimo».
Però la scelta per Parigi è andata su Checker: quando ha deciso per lui?
«Due mesi prima delle Olimpiadi. Inizialmente non avevo alcun dubbio sul fatto che sarebbe stato Mumbai il cavallo per Parigi, ma alla fine del 2023 mi sono reso conto che Checker stava crescendo moltissimo, diventando sempre più consistente e regolare nel rendimento. Che fosse un ottimo cavallo era ovviamente chiaro fin dall’inizio, ma in tutta onestà non me lo sarei aspettato a quel livello… così ho cominciato a pensare che forse avrei potuto avere anche un’alternativa. E poi alla fine è stato proprio lui il prescelto».
La finale individuale a Parigi ha portato al barrage decisivo tre cavalieri, e lei ha dovuto partire per primo, quindi senza conoscere il risultato dei suoi due avversari: è stato un motivo di ulteriore tensione?
«Diciamo che non è mai gradevole partire per primi in un barrage, ma a Parigi è stato diverso perché ognuno di noi tre sapeva di aver matematicamente conquistato una medaglia. Qualunque cosa accadesse. Nella peggiore delle ipotesi avrei avuto la medaglia di bronzo, che per me sarebbe stato comunque un risultato grandioso, quindi ero completamente rilassato, senza alcuna preoccupazione… Ovviamente ero concentrato al massimo e puntavo alla vittoria, questo è chiaro, ma senza ansia e tensione».
Cosa ha pensato prima di entrare in campo per il barrage, quale era la sua strategia di gara?
«Calcolando il valore di Steve Guerdat e di Maikel van der Vleuten ero ben consapevole che per vincere non sarebbe bastato un percorso netto… Ho quindi rischiato qualcosa per cercare di essere anche abbastanza veloce e mettere così un po’ di pressione su di loro. Fortunatamente sono riuscito a fare un buon barrage… ed è andato tutto bene».
Cosa si prova a vincere la medaglia d’oro alle Olimpiadi? Cosa ha pensato alla fine dei percorsi dei suoi due avversari?
«I primi secondi mi sono sentito completamente svuotato. Come se dentro di me non ci fosse più niente… Poi è arrivata l’emozione… difficile descrivere le sensazioni di quel momento: adrenalina, gioia, un’esplosione di energia… Poi vedere tutti che venivano da me felici… insomma, sono cose forti, molto forti».
Anche perché prima c’era stato un risultato di squadra forse un po’ deludente per lei e per i suoi compagni…
«Non un po’: molto, molto deludente! Soprattutto dopo la magnifica prestazione della squadra nella gara di qualifica alla finale. Terminare quella finale senza una medaglia è stata una delusione fortissima per tutti noi».
Lei ha trovato il modo migliore per cancellarla, quella delusione… ! E dunque adesso? Cosa succederà? Quali sono i suoi programmi, le sue prospettive?
«Niente di particolare. Tutto come al solito. Continuerò a fare le stesse cose di sempre lavorando sodo e cercando di migliorare… ».
(Cercando di migliorare: detto da un uomo di 34 anni che cinque mesi fa ha vinto la medaglia d’oro individuale alle Olimpiadi).