Campobasso, 8 maggio 2018 – L’incidente in cui ha perso la vita un uomo di 76 anni a Chieuti, provincia di Foggia, duranta la tradizionale Cavalcata dei Buoi, ha attirato l’attenzione dei media su una manifestazione la cui eco esce raramente dai confini regionali del Molise e di quel pezzo di Puglia lì vicino.
Si tratta delle Carresi, un circuito di eventi accomunati dalla competizione tra carri tirati da buoi e sospinti da uomini a cavallo, a sfondo religioso.
Chi scrive per voi dopo l’incidente e la visione del video relativo ha avuto una reazione automatica: ma come, buoi che galoppano? è contro natura.
Poi mettici i cavalli al galoppo dietro e di fianco, le macchine davanti, gente ovunque senza transenne e l’asfalto e poi l’incidente…un caos, non bello da vedere a prescindere dal povero cristiano che ci ha lasciato la pelle.
Ma, c’è un ma.
Perché oltre alle ovvie voci “contro”, in tanti avevano commentato il post a favore dell’evento, e in un modo che mi ha fatto pensare.
Rabbioso, certo, urtato e orgoglioso e veemente; ma ad una mia risposta non troppo pungente era stato risposto in modo educato.
Strano.
Di solito, nella mia esperienza ormai annosissima di litigi a mezzo internet, i cretini non ragionano mai, non perdono mai tempo a calmarsi e a scambiare due parole civili senza ironia…e allora mi sono incuriosita, perché quando queste persone pro-Carresi dicevano “Non conoscete le Carresi, come fate a parlarne?” avevano, obiettivamente, ragione: così ho cercato di saperne di più parlando con chi invece li conosce bene.
E ho scoperto che l’origine di queste attività si perde nella notte dei tempi, riti pagani legati alla fertilità del terreno (non per niente si tengono a primavera) sono stati adottati e rivestiti da usanze religiose prima, per diventare poi sfoggi laici di potenza economica e sociale nell’ultimo secolo: erano le famiglie più abbienti che si potevano permettere di gareggiare tra loro per contendersi l’onore di portare la statua del Santo, durante la sua festa.
Ma il risvolto sociale le Carresi ce l’hanno soprattutto oggi: perché i buoi che vengono aggiogati ai carri sono un catalizzatore positivo per tanti ragazzi dai 14 ai 23 anni che li curano, li custodiscono, li allenano con scrupolo 365 giorni l’anno, ed è un punto d’onore e un motivo di orgoglio per loro riuscire a farli correre per più anni possibile: non lo avrei mai creduto, ma ci sono buoi che hanno già 6 o 7 anni di carriera alle spalle.
Sono atleti, nel vero senso della parola: proprio come i nostri cavalli.
Vengono scelti per questo impiego secondo precisi criteri morfo-funzionali che ricalcano quelli dei buoi da lavoro di una volta: non quelli dei bovini da latte né da carne, ma proprio da lavoro. Appiombi funzionali, arti sani, diametri e parametri adatti allo sforzo fisico e atletico.
Poi vengono allenati secondo programmi progressivi appositamente studiati, anche la loro alimentazione è pensata per essere la più adatta ad un atleta – ad esempio, durante lo sforzo il rumine non deve essere troppo voluminoso, pena la mancanza di rendimento dell’animale; e per quanto sia strano per una emiliana come me vedere un bue al galoppo (da noi il carro stesso che veniva loro attaccato non era adatto altro che al passo), questi sono allenati a farlo. Pensate che per essere sicuri di usare il pungolo meno violento e cruento (il dolore blocca il bue, che poi non galoppa) hanno fatto studiare il modello che utlilizzano dai professori dell’Università di Perugia: negli anni ’90, non adesso. E il pungolo, esattamente come i nostri speroni, è necessario come aiuto a guidare un carro trainato dai buoi, che portano la mordacchia al naso (e non una imboccatura) e hanno il giogo sul collo.
E sono reliquie questi buoi, quasi l’ultimo vivere di tutta quella sapienza che i nostri nonni avevano accumulato sul loro modo di poterci aiutare nei lavori più pesanti, che carne e latte non erano la sola cosa che i bovini potevano dare: avevano anche la forza da metterci a disposizione, se sapevamo come chiedergliela. E questi delle carresi sono bellissimi buoi: leggeri e fini, eleganti, insanguati verrebbe da dire.
Sono tutti di razza Podolica, gli ultimi relitti di una popolazione che aveva fatto vivere il Molise per secoli, lo stesso Molise che oggi è quasi spopolato di bestie e lavoro: e dire che una volta una famiglia con due buoi, cinque maiali e una ventina di pecore riusciva a mandare un figlio a studiare all’università.
Il Molise non ha quasi più questa rete diffusa e tenace di agricoltori e allevatori legati ad una terra difficile ma onesta, che ripagava la fatica di chi la lavorava: in Molise non ci sono quasi più allevamenti, c’è poco lavoro, ci sono molti problemi che città su al Nord non hanno.
C’è poco da fare per i ragazzi, pochi centri di aggregazione: per qualche strano caso, sono proprio i buoi a offire a tanti di loro un motivo per non finire in strada e a toglierli dalla noia, che è sempre una cattiva consigliera.
Perché i buoi vanno curati e seguiti, e i ragazzi che hanno questo incarico imparano ad avere un rapporto empatico con loro: si devono prendere cura di un animale grande e grosso, che richiede attenzione quotidiana e costante – e prendersi cura di qualcuno, anche di un bue, ti insegna a prenderti cura di te stesso e degli altri.
Poi ci sono i cavalli, che alleggeriscono il carro grazie ai cavalieri che lo sospingono con le loro verghe, permettendo così ai buoi di esprimere il galoppo al meglio senza il peso del traino diretto del carro: negli anni ’80 erano Argentini, poi sono stati usati i Mezzosangue. Adesso sono quasi tutti Purosangue Inglesi del tipo stayer, quelli da distanze lunghe, più potenti dei velocisti puri: loro durante il resto dell’anno vengono portati a correre negli ippodromi laziali o campani, e anche questa è un’occasione di lavoro per qualche ragazzo nato in Terra di Lavoro che ha scelto di fare il fantino o lavorare nelle scuderie.
L’avreste detto che queste corse hanno un aspetto sociale così forte? io no, non lo sapevo.
Ma posso capire quanto sia importante, per un ragazzo che non ha prospettive, avere la responsabilità di una vita così grande, così forte e così bella: come quella di un cavallo, o come quella di un bue da lavoro.
Non credo che la differenza sia poi così tanta.
Poi certo, tante cose sono migliorabili: la sicurezza delle manifestazioni, tanto per dirne una.
Ma sparare ad alzo zero senza salvare niente no, non credo sia il caso: perché in fondo ci assomigliamo molto, noi e loro che per inciso si sentono i protettori di questi animali, passando con loro tanto tempo e dedicando loro tanta passione. E per forza che hanno reagito a chi li giudicava senza darsi la pena di conoscerli: non faremmo, non facciamo così anche noi per i nostri cavalli?
Ringrazio di cuore due medici veterinari, Daniele Gagliardi che ha perso una serata a raccontarmi delle Carresi, e Ombretta Orsini che con una delle sue sintesi semplici ma lapidarie ha riassunto il suo pensiero e il mio sentimento in un colpo solo: “Penso che le tradizioni che coinvolgono gli animali vadano incanalate su giusti binari, ma assolutamente non soppresse, e trovo onesto e vitale che gli animali domestici si guadagnino la biada”.
E con quella la vita, perché chi non ha una ragione d’essere scompare: come i buoi da lavoro, per l’appunto…o i cavalli, anche.