Bologna, 27 gennaio 2022 – Irène Cahen d’Anvers la conoscete tutti, anche senza saperlo: era quella ragazzina dolce, dai magnifici capelli rossi dipinta da Pierre-Auguste Renoir nel 1880.
Se guardate nella vostra memoria la trovate: ha un pesciolino azzurro sulla mollettina che le chiude l’acconciatura, lo sguardo da brava bambina educata e paziente.
E’ curioso scoprire che un viso così noto (chi non l’ha visto sui libri di storia dell’arte?) apparteneva ad una amazzone inveterata.
Irene proveniva da una facoltosa famiglia di banchieri ebrei francesi. Sposò Moïse de Camondo, nato e cresciuto nello stesso milieu e altrettanto amante di caccia ed equitazione, nonché uomo d’affari di successo.
Ebbero due figli, Nissim e Beatrice, prima di divorziare: Irène si era innamorata del conte italiano Carlo Sampieri, cui era stata affidata la scuderia di famiglia.
Nissim morì in azione durante la Prima Guerra Mondiale, il padre gli intitolò un museo creato nella splendida residenza di famiglia a Parigi, in rue de Monceu.
Beatrice rimase (con il marito Lèon Reinach e i due figli Fanny e Bertrand) unica erede della sterminata fortuna ereditata dal padre.
continuò a montare a cavallo anche durante la Seconda Guerra mondiale.
Inseguiva la muta della Par Mons et Vallons nella chasse à courre.
Partecipava agli stessi concorsi cui prendevano parte gli ufficiali tedeschi che occupavano la Francia portando in modo discreto una piccola stella gialla sulla sua giacca da cavallo.
Probabilmente pensava di non correre pericoli grazie alle conoscenze in alto loco e alle benemerenze acquisite dal mecenatismo della sua famiglia, ma si sbagliava.
Nel 1942 venne deportata ad Auschwitz con il marito e i due figli: morirono tutti, Fanny per prima dopo solo una settimana di prigionia a causa del tifo.
Anche Fanny era una ottima amazzone, l‘ultima fotografia che c’è di lei è presa ad una corsa al galoppo.
Il cappellino bianco e fiorito le illumina il viso sorridente, dopo poche settimane sarà messa su un carro bestiame e deportata in campo di sterminio.
Nonna Irene, quella che una volta era la bambina dai capelli rossi, fu l’unica della sua famiglia a sopravvivere all’Olocausto.
Morì nel 1963, si era salvata perché in Italia era riuscita a nascondere la sua identità grazie al nome del secondo marito.
Di tutti loro rimane il museo dedicato a Nissim de Camondo: un monumento alla memoria di chi non c’è più ma anche alla crudeltà di chi cancellò tante esistenze dalla faccia della terra su cui tutti abbiamo diritto di vivere.
E tra tutte quelle esistenze perdute c’erano anche quelle di gente che, proprio come noi, amava tanto i cavalli.
Sono vite da ricordare: perché c’è ancora molto bisogno di memoria, evidentemente.