Boston, 7 maggio 2019 – Uno studio pubblicato nei giorni scorsi sulla rivista americana di biologia Cell, a firma del ricercatore Antoine Fages ed altri, ha riportato alla ribalta il tema del patrimonio genetico degli attuali cavalli e dei loro antenati.
Le novità in realtà non sono eclatanti, a parte il fatto che adesso sappiamo di poter circoscrivere moltissimo il ruolo di due tipi equini ormai estinti nell’albero genealogico dei cavalli moderni: si tratta di un ceppo dell’Iberia Caucasica e di uno siberiano di cui sono stati studiati i resti (fossili o meno, vedi puledro ritrovato nel permafrost qualche mese fa), e di cui sono state trovate lievissime memorie in parte dei tessuti studiati, appartenenti ai resti 149 animali antichi con 129 diversi genomi, di cui 87 del tutto nuovi alla scienza.
«Le prime testimonianze archeologiche sulla mungitura, l’insellaggio e l’allevamento dei cavalli si trovano nella cultura Botai di 5.500 anni fa, nelle steppe dell’Asia centrale» spiega la ricerca, «ma i cavalli simili ai Botai, tuttavia non sono i diretti antenati dei cavalli addomesticati moderni, bensì dei cavalli di Przewalski. La loro origine genetica rimane quindi controversa, e vede come candidati più probabili quelli vissuti nelle steppe Pontico-Caspiche, in Anatolia e quella che una volta era identificata come Iberia e corrisponde oggi allo stato ex-sovietico della Georgia».
Particolare riguardo anche per l’ambio, caratteristica andatura supportata da una variabile genetica che però non sembra essere la sola ragione di questa “marcia in più” che hanno avuto e hanno ancora alcuni cavalli, dai “portanti” e ginetti del medioevo agli Islandesi di oggi: i vecchi uomini di cavalli dicevano, infatti, che i puledri imparavano ad ambiare dalla madre.
Sempre interessante, anche se non è una scoperta, il concetto ben puntualizzato dagli studiosi sul fatto che grazie al cavallo si sono diffusi molto più velocemente di quanto non avremmo fatto da soli non solo la cultura e la civiltà, ma anche il patrimonio genetico umano e le malattie.
Per il resto, si ribadisce l’importanza dei cavalli medio-orientali (o Persiani, come indicati nello studio) come antenati dei cavalli di oggi: portati dalle conquiste islamiche in Europa e per tutt al’Asia, ma anche “concentrati” grazie alla relativamente recente ricerca della velocità effettuata dall’uomo nella selezione allevatoriale – vedi la nascita del Purosague Inglese, iniziata nel ‘700 e basata sui celebri capirazza arabi, berberi e turchi.
Gli ultimi mille anni, in pratica, sono stati fondamentali: abbiamo lasciato la nostra traccia indelebile facendo scomparire dalla faccia della terra quasi tutti i cavalli selvaggi, selezionando numerosissimi tipi equini (anche qui il concetto di “razza” è fuorviante) che si sono adattati, con la buona volontà e l’impegno che hanno tutti i cavalli, alle nostre umane esigenze.
Diminuendone la varabilità genetica intrinseca, è vero: ma sono così meravigliosi tutti, e tutti così meravigliosamente diversi che la cosa passa in secondo piano.
Dall’Akhal-Teké allo Zaniskari, passando per Bardigiano, Camargue, Dartmoor, Esperia, Frisone, Gipsy, Hackney, Islandese, Lipizzano, Maremmano e via recitando tutto l’alfabeto ippologico: non ce n’è uno che in tutta la storia comune, che dura per l’appunto da 5.000 anni, non si sia fatto in quattro per noi bipedi fortunati.
Cerchiamo di meritarceli e di conservarli per almeno altri 5.000 anni.
Qui lo studio pubblicato da Cell con grafici e dati completi