Bologna, domenica 5 aprile 2020 – Gorizia, 5 agosto 1955. Nell’ufficio postale fa caldo, nonostante le pale del ventilatore a soffitto si diano da fare al meglio per muovere l’aria: ma a quell’ora di mattina, poco prima di mezzogiorno, l’impresa è quasi disperata… Un uomo anziano, alto e sottile, sta aspettando il suo turno, pazientemente. Nell’attesa pensa. E forse pensa anche che tra qualche giorno, il 9 agosto, sarà il suo compleanno: una ricorrenza che quando si è giovani e pieni di vita di solito si festeggia, poi invece da vecchi si preferirebbe quasi evitarla. Già: 78 anni non sono pochi – forse pensa l’uomo alto e sottile mentre pazientemente aspetta il suo turno – e quindi ogni compleanno non è altro che l’ennesimo passo verso… verso… oddio, cosa succede… oddio, cosa… mi sento male, mi sento male… ! aria, aria, aria… che dolore, il dolore… aiuto, aiu… Buio. L’uomo anziano alto e sottile crolla a terra, tra le urla di una signora che gli stava proprio di fianco e l’immediato tentativo di soccorso da parte dei presenti. Tutto inutile: l’uomo che tra qualche giorno avrebbe compiuto 78 anni è morto. Morto. La busta grande e imbottita che contiene la cartellina – sì: proprio quella cartellina… – sta lì per terra. Di fianco a lui.
Un salto indietro di un anno. Rotterdam, 1 settembre 1954: giorno d’inizio dello Csio d’Olanda. Anzi, del Chio d’Olanda, secondo l’acronimo che si usava allora e che poi in seguito sarebbe stata utilizzato per indicare la riunione contestuale di concorsi ippici internazionali ufficiali – quindi con le squadre nazionali delle federazioni partecipanti – di più specialità (salto, dressage, attacchi, completo… ).
L’Italia vi arriva come favoritissima, nonostante l’assenza dei fratelli d’Inzeo: Piero lontano dalle gare per quasi tutto l’anno a causa degli impegni di comando subito dopo la promozione a capitano, Raimondo perché vittima di un infortunio qualche settimana prima. Quella azzurra è tuttavia la squadra da battere perché – pur con soli tre effettivi agli ordini del capo équipe colonnello Bruno Bruni – i nostri cavalieri avevano cominciato quella tournée di tre concorsi nel nord Europa con due successi perentori: prima la vittoria della Coppa delle Nazioni del Belgio a Ostenda con Salvatore Oppes, Fabrizio Finesi e Lorenzo de’ Medici; poi nel successivo Gran Premio a Le Zoute vittoria di de’ Medici su Dick, con Oppes al 2° posto su Cluain Meala. La stella della nostra rappresentativa è proprio il capitano Oppes: a Ostenda è lui che in Coppa monta due cavalli così da poter comporre il quartetto di binomi (allora il regolamento degli Csio prevedeva questa possibilità), terminando con doppio zero in sella a Somalo e potendosi poi risparmiare il secondo percorso in sella a Cluain Meala – quarto a partire dei nostri – a vittoria ormai acquisita dopo aver chiuso senza errori il primo giro. Tre percorsi netti su tre!
Dunque Rotterdam. Terreno di rivincita per le squadre europee contro un’Italia che – in inferiorità numerica rispetto agli avversari – vi arriva da conquistatrice. Il concorso inizia l’1 settembre al freddo e sotto la pioggia con le prime gare utili a mettere i cavalli a loro agio su terreno e ostacoli e percorsi. Gare interlocutorie, preludio dell’attesissimo Gran Premio e della più ancora elettrizzante Coppa delle Nazioni, la prova di maggior prestigio. Salvatore Oppes in questa giornata d’esordio non forza Pagoro più di tanto, cavallo ormai verificato e affidabile dopo tante e tante gare vissute anche sotto la sella di Piero d’Inzeo, cavallo con il quale Oppes aveva conquistato qualche mese prima a Madrid il 4° posto nel Campionato del Mondo: e in finale il figlio del purosangue Grazzano era risultato il migliore dei quattro cavalli che si contendevano il podio. E poi doppio netto in Coppa a Ostenda solo qualche giorno prima… Cluain Meala invece è bene che si impegni un po’ di più: cavalla irlandese eccellente e di qualità, ma ancora da mettere a punto al meglio. Così Oppes la fa partire nella gara più difficile della giornata con l’intenzione non certo di puntare alla classifica, bensì di fare qualche buon salto su ostacoli che richiedano attenzione e passaggio. Ma in ogni caso una gara di normale amministrazione. Quindi la catastrofe non era proprio prevedibile, certo no…
Un largo. Oppes monta in avanti, come suo costume sempre e comunque. Tuttavia Cluain Meala si ritrae un po’, forse insicura su un terreno in erba cedevole e allentato dalla pioggia. Oppes però non lascia spazio ai timori della cavalla: guai, altrimenti. Ma Cluain Meala non risponde con convinzione e così il punto della battuta arriva troppo lontano dall’ostacolo: Cluain Meala si produce in un salto che rappresenta la mezza via tra il cuore irlandese che non cede mai e l’incertezza dettata dalle circostanze oggettive. L’esito è drammaticamente logico: la cavalla non riesce a coprire la larghezza dell’ostacolo e vi frana dentro per poi rovesciarsi a terra in un turbinio di barriere e fango e acqua rotolandosi sopra il suo cavaliere… Né lei né Oppes si rialzano. La loro immobilità a terra dopo questa situazione di folle movimento e di angosciosa velocità produce un contrasto che paralizza i pensieri e lo stomaco di chi li sta a guardare. Tutto fermo. Istanti eterni. I barellieri e i medici di servizio si precipitano in campo. Nulla si muove. Il pubblico trattiene il fiato. La prima evidenza è tragica: la schiena di Cluain Meala non ha retto, per lei non c’è nulla da fare. Non è morta: lo sarà nel giro di poco, il veterinario compirà quel dovere a cui mai si vorrebbe rispondere. Oppes è semicosciente: la sua situazione appare tuttavia disperata. Viene caricato in barella e trasportato il più rapidamente possibile in ospedale. Una volta giunto a destinazione e sottoposto a tutti gli esami e a tutte le analisi del caso il quadro appare di certo molto grave, però meno drammatico di quanto sembrasse lì per lì: il bacino è fracassato in tre punti, un braccio ha riportato più fratture, un’anca è lussata con la testa del femore fuori sede, il trauma cranico è evidente. Ma è scongiurato il pericolo di vita, quanto meno. Il capitano Oppes viene sottoposto a un intervento chirurgico immediato e assai laborioso e complesso eseguito dal professor Kosters, insigne luminare olandese, tra l’altro uomo di cavalli a sua volta e – ovviamente – grande appassionato di sport equestri. Il chirurgo deve ricomporre tutti i pezzi delle ossa di Oppes: un lavoro di ore. Il gruppo azzurro si divide tra il campo ostacoli e l’ospedale. Fabrizio Finesi continua a fare una spola incessante: su e giù, su e giù.
Non appena ripresa conoscenza Oppes vuole sapere tutto: chiede, e pretende risposte. Se fosse dipeso dalla sua volontà, lui dopo solo poche ore avrebbe già lasciato l’ospedale per tornare dai suoi compagni e dai loro cavalli… ma ovviamente non è in grado di muovere nemmeno il dito di un piede. Nel frattempo il colonnello Bruno Bruni organizza quella che si preannuncia come una lunga permanenza di Oppes in ospedale: prende accordi, si assicura che tutto venga previsto fin nei minimi dettagli, stabilisce una sorta di ponte aperto di contatto con l’Italia. Al termine del concorso però la squadra azzurra deve rientrare: al più presto qualcuno ritornerà a Rotterdam, ma prima bisogna ricondurre i cavalli a destinazione.
Il colonnello Bruni il giorno precedente la partenza del gruppo azzurro si reca in ospedale per salutare il capitano Oppes. Poi si intrattiene con il professor Kosters per un ultimo scambio di informazioni. Al termine della conversazione Bruni si alza e prima di stringere la mano al chirurgo olandese gli si rivolge con schiettezza militaresca: «Professore, mi dica quale è il suo onorario». Kosters guardando negli occhi Bruni e tendendogli la mano risponde sorridendo: «Colonnello, lei dimentica che anche io sono un cavaliere».
Nel 1955 Gino de Finetti è ormai da tempo uno dei più grandi nomi della grafica pubblicitaria, della cartellonistica illustrativa, della pittura legata allo sport, al costume, alla moda, alla società. Una vita vissuta tra la Germania e l’Italia caratterizzata da una produzione sconfinata di dipinti, litografie, manifesti, acqueforti, quadri, miniature… Un grande artista, il quale tuttavia ama ricondurre all’immagine pittorica un prevalente significato di comunicazione, più che di espressione artistica fine a sé stessa: «Fattura, tecnica, scopo, durata dell’opera d’arte contano poco. Se mi riuscisse – pensavo – a fare delle illustrazioni veramente espressive e solide o dei cartelloni decorativi senza i soliti lenocini, ecco dell’arte vera, inferiore a quella d’altri tempi soltanto perché viviamo in un’epoca più nervosa e più agile, forse meno seria. La stampa a rotazione ha abolito l’affresco. L’artista deve essere figlio del suo tempo, anche a prezzo di non sopravvivergli», scrive nel 1920 rivolgendosi a una vasta schiera di critici d’arte italiani.
Nei primi anni della sua carriera artistica Gino de Finetti lavora prevalentemente come illustratore in Germania guadagnandosi ben presto fama e notorietà: riviste, giornali, case editrici e aziende commerciali lo cercano e lo vogliono per affidare alla sua intelligenza, al suo spirito e naturalmente al suo tratto e al suo disegno una notevole varietà di commissioni: da volantini a pagine di giornali, da manifesti a cartoline, da attualità da illustrare a satira di cultura. Naturalmente arriva anche la moda: negli anni che precedono la seconda guerra mondiale de Finetti ‘sfrutta’ molto il corpo e la sensualità e la bellezza della moglie tedesca Martha Bermann per disegnare abiti, figure, situazioni, modelli, corpi… Ma quelli sono anche anni in cui de Finetti si dedica molto allo sport e in particolare ai cavalli, pubblicando moltissimo sulla “Berliner Zeitung” e su “Sankt Georg”.
Divenuto molto amico del conte Calvi di Bergolo, Gino de Finetti viene da lui introdotto a Pinerolo e a Tor di Quinto, dove scatta il colpo di fulmine: «I primi ufficiali italiani che vidi saltare furono per me una rivelazione: la loro sapiente economia di forze era una lezione ideale per l’artista, ammirabile l’intuizione loro, forse inconscia, delle leggi fisiche. Appena potei, andai a Roma quasi in pellegrinaggio a vederli». Un amore talmente coinvolgente che quando Gino de Finetti insieme a Martha Bermann abbandona la Germania nel 1934 per tornare in Italia – poiché l’atmosfera si stava facendo davvero sgradevole… – è universalmente conosciuto come ‘il pittore dei cavalli’. Una definizione che pur essendo indotta da una passione sconfinata in realtà gli va stretta: non gli piace essere inquadrato schematicamente, così da quel momento i cavalli rimarranno come soggetti di opere più che altro cartellonistiche dedicate a eventi sportivi e manifestazioni fieristiche (suoi moltissimi manifesti del concorso internazionale di Piazza di Siena), mentre la pittura seguirà e produrrà altri soggetti e scenari. Però i cavalli gli rimangono nel cuore: e con loro tutto il loro mondo, tanto da stringere ottimi e forti legami che vanno dalla semplice conoscenza alla vera amicizia: de Finetti segue i concorsi, si tiene informato, collabora con il “Cavallo Italiano” (la rivista della Fise), vuole sapere…
La seconda guerra mondiale sarà per Gino de Finetti uno shock tremendo, come del resto per tutti coloro i quali ne verranno in qualche modo anche solo sfiorati: ma le due anime che convivono in lui, quella tedesca e quella italiana, rendono il tutto davvero difficile da sopportare. Dopo la guerra il lavoro continua ma in Gino de Finetti si fa largo una dimensione probabilmente nuova rispetto a prima: quella della condivisione, della testimonianza, dello starsi vicini, del sentirsi in contatto con le persone che contano veramente nel panorama degli affetti e dei sentimenti. Di certo una conseguenza delle angosce patite durante gli anni della guerra. Lui ormai non è più giovane, è affermato, ha raggiunto fama e notorietà: adesso la sua arte non è più solo lavoro per un committente, ma anche piacere da donare alle persone alle quali si vuole bene, agli amici, alle persone alle quali ci si sente vicini in qualche modo e per qualche ragione. Il dono di un suo schizzo, di una sua china, di una sua litografia per non dire di un suo dipinto diventa la testimonianza di un sentimento, di una prossimità, di una condivisione.
Quando nel mondo dello sport equestre azzurro si viene a sapere dell’incidente subito dal capitano Salvatore Oppes a Rotterdam quel primo giorno di settembre 1954 Gino de Finetti ne rimane molto colpito. Molto colpito. Immagina bene quello che deve aver patito Oppes, sia nel corpo martoriato dalle fratture sia nel cuore affranto per la morte di Cluain Meala. Nell’animo dell’artista tutto ciò viene amplificato grazie a una sensibilità particolare, quella che appunto lo fa essere artista, uomo capace di rappresentare emozioni e sentimenti grazie a un disegno, a un’immagine, un’immagine in grado di comunicare quello si prova nella profondità dell’animo. Forse anche a causa dell’età: quando si entra nell’autunno dell’esistenza la percezione del male e del dolore e dell’angoscia soprattutto altrui si fa più intensa e allo stesso tempo chiara, evidente. Gino de Finetti segue l’evolversi della situazione di Salvatore Oppes; un’evoluzione ovviamente dolorosa e faticosa, ma anche molto rapida se si considerano le premesse di partenza: Oppes rimonta in sella nell’aprile del 1955 giusto in tempo per fare un concorso prima dello Csio di Roma ai primi di maggio. Un uomo dalla tempra di acciaio e dal coraggio di leone: dentro di lui la durezza e l’asperità della Sardegna.
Quando è ormai chiaro che il capitano Oppes è a tutti gli effetti ritornato quello di prima dell’incidente, pur se inevitabilmente segnato dai traumi subiti, Gino de Finetti si sente sollevato, come del resto tutti coloro i quali vivono dentro lo sport equestre. Si sente sollevato, e sente anche che il suo compito è quello di celebrare l’allontanamento del dramma nell’unico modo per lui possibile: disegnando.
Gino de Finetti si mette dunque all’opera. E realizza una serie di nuove litografie ispirate allo sport, ai cavalli, alla rinascita. Con tutta la sua accuratezza e tutto il suo genio e tutta la sua matura esperienza di artista. Con le capacità di una vita intera trascorsa a disegnare, incidere, dipingere: ma soprattutto – e prima di tutto – sentire e pensare. È per questo che la mattina del 5 agosto 1955 Gino de Finetti prepara una cartella di cuoio entro la quale disporre queste sue nuove litografie. Poi, dopo aver sigillato il tutto all’interno di una busta dalle superfici rigide e imbottite e aver scritto in bella e artistica calligrafia l’indirizzo del destinatario, esce di casa incamminandosi verso l’ufficio postale, non senza aver prima dato un bacio a Martha, donna alla quale l’età non aveva rubato nulla della scintillante bellezza e dell’ammaliante fascino di un tempo.
È una mattina calda e assolata: Gino de Finetti cammina lentamente, cercando di rimanere il più possibile nelle zone d’ombra. Poi arriva all’ufficio postale. Sì, arriva all’ufficio postale. Tenendo sotto braccio la busta con dentro la cartellina di cuoio contenente le litografie destinate a celebrare la gioia di un ritorno, di una specie di rinascita, il sollievo per la testimonianza della vita che continua.
Gino de Finetti arriva all’ufficio postale. Entra. Cerca un po’ di refrigerio sotto le pale del ventilatore a soffitto che muove l’aria, ma non abbastanza. E poi… succede. Succede. E la busta contenente la cartellina di cuoio con dentro le nuove litografie rimane a terra lì, accanto a lui. Con in vista l’indirizzo e il nome del destinatario, scritto in bella e artistica calligrafia solo pochi minuti prima. Il luogo di consegna l’Olanda. La città Rotterdam. Il destinatario il professor Kosters.