Una storia come quella che tanti dei nostri nonni, soldati durante la seconda guerra mondiale, hanno raccontato. Almeno quando qualcuno era disposto ad ascoltarli, e per loro non era troppo doloroso ricordare.
Ma quella di Pietro Santelli, 102 anni e una memoria ancora limpida a servirlo, ha un dettaglio che a noi dice qualcosa in più.
Perché lui e altri sette compagni che dopo la sconfitta della Germania tornavano in Italia da Vienna a piedi, sono rimasti vivi grazie a un quintale di zuccherini per i cavalli dell’esercito tedesco.
«Dopo l’armistizio fui fatto prigioniero dai tedeschi» ha spiegato Santelli a Marco Brogi, de La Nazione.
E continua: «Mi portarono a Vienna a lavorare nella fabbrica della Mercedes con altri soldati del nostro esercito. Si costruivano gli Stukas, i terribili aerei da bombardamento. Ricordo quei giorni come fosse ora».
Pietro Santelli vive a Piancastagnaio, compirà 102 anni il prossimo 14 ottobre: è molto lucido e conserva un’ottima memoria.
La voce di Santelli è chiara e sicura mentre ricorda quei giorni: «Quando i russi cominciarono ad avvicinarsi a Vienna ci mandarono al confine con l’Ungheria a scavare le trincee per fermare la loro avanzata. Ci sono rimasto quattro mesi: dal 24 novembre al 25 marzo. Quattro mesi molto duri: si dormiva in cinque e anche in sei in una specie di rimessa molto piccola, tutti ammassati, sembrava di non respirare».
“Parla tutto di un fiato, Pietro, come se avesse urgenza di dire quello che ha passato, patito, visto. Nel frattempo la grande storia imboccava la strada giusta: la sconfitta dei tedeschi e la liberazione dell’Italia. Ma la storia piccola (ma solo apparentemente), quella dei Pietro di tutto il mondo, era ancora densa di ostacoli, spine, sofferenza” scrive Brogi.
«Dopo aver scavato le trincee siamo tornati e piedi a Vienna e da lì partiti, sempre a piedi, per l’Italia», ricorda Santelli.
«Eravamo in otto. Avevamo fame e non sapevano come procurarci il cibo. La fortuna ci venne incontro. Lungo il cammino abbiamo trovato un quintale di zucchero per cavalli abbandonato dai tedeschi in ritirata. Quello zucchero fu provvidenziale. Lo offrivamo in cambio del pane alle famiglie di contadini che abitavano nei piccoli paesi che incontravamo sulla via del ritorno. Lo voglio dire un’altra volta: quello zucchero fu la nostra salvezza».
La storia di Pietro ha avuto un lieto fine, dolce come lo zucchero che i cavalli tedeschi non mangiarono mai: «Lungo il cammino c’erano gruppi di partigiani che cantavano esultanti per la cacciata dei tedeschi. Il 14 maggio del 1945 rividi il mio paese. Una felicità mai provata prima. L’incubo era finito. Ero di nuovo libero e anche l’Italia era stata liberata. Non bisogna dimenticare chi ha combattuto e dato la vita per la democrazia».
No, non bisogna dimenticare: nemmeno il coraggio, l’onestà, la fatica, la fame, il dolore, la paura di chi come Pietro dopo l’armistizio dell’8 settembre scelse di non stare più coi nazifascisti.
E la loro capacità di resistenza, e la forza per non scoraggiarsi e riuscire a tornare dalle loro famiglie – anche a piedi, anche quasi morti di fame e di stenti.
Non tornarono tutti, no.
E tra quelli che tornarono dopo la prigionia non tutti vollero o riuscirono a parlare, e tra quelli non tutti trovarono qualcuno disposto ad ascoltarli.
Grazie a Pietro Savelli anche per questo, per la voce che ha dato a chi non riuscì a buttare fuori l’orrore che aveva vissuto.
E grazie anche per averci ricordato che la Libertà è dolce, signor Savelli.
Qui la storia di un altro reduce di guerra: Albino, di Savoia Cavalleria.

Cavalli della Wehrmacht durante la seconda guerra mondiale: una simulazione di esplorazione in territorio nemico, con musette per non farli nitrire e sacchi di juta ad attutire, almeno in parte, il rumore dei ferri sulla strada. Notare la mitica sella M25 in uso alla cavalleria tedesca durante la WWII: un gioiello fatto in selleria, progettato nel 1925 ma ricercatissimo per il turismo equestre sino ad oggi.