Dharamsala, 14 marzo 2019 – Il 10 marzo scorso al Tempio del XIV Dalai Lama del Tibet, Tenzin Gyatso, in esilio sul territorio indiano dal 1959 si è svolta una manifestazione di protesta per ricordare il 60° anniversario dell’insurrezione tibetana contro il dominio cinese: tra i manifestanti, anche alcuni attivisti a cavallo.
Piccola nota equestre: il destriero della foto pare essere un Marwari, affascinante razza indiana caratterizzata dalle particolari orecchie a lira le cui punte si toccano in una curva elegante e unica.
Gli indiani considerano i cavalli Marwari un tesoro nazionale, e le loro radici genetiche si intrecciano a quelle dei Kathiawari, altro tipo equino per noi quasi sconosciuto.
Perché l’India può sembrare così lontana, anche ai nostri giorni ma per avvicinarla a noi e annullare distanze temporali e geografiche basta trovare un minimo comun deniminatore.
Quale? Ma un cavallo ovviamente, anzi: un cavallo e il suo cavaliere, che non c’è niente come trovare qualcosa di comune e forte come il legame che unisce le due metà di un vero binomio per farci sentire partecipi anche di storie esotiche come quella di Chetak.
Chetak era un cavallo Kathiawari dal manto grigio ferro testa di moro: la sua ascendenza non è certissima, secondo alcune fonti poteva anche essere un Marwari ma fu sicuramente scelto dal Maharana Pratap (1540-1597) come suo personale cavallo da guerra.
Pratap Singh era un principe del Mewar, paese in costante conflitto con i Mogul.
In una delle tante battaglie che li vide affrontati, quella di Haldighati del 1576, Chetak diede prova di tutto il coraggio e la forza dei cavalli della sua razza: lanciato all’assalto da Pratap affrontò impennandosi l’elefante bianco sul quale stava assiso il Raja Man Singh e gli piantò in fronte i suoi zoccoli anteriori, mentre Pratap con la sua lancia centrava il mahout dell’elefante.
Nella confusione che seguì all’azione una delle gambe di Chetak fu ferita dal pachiderma: un dramma per Pratap che, colpito a sua volta, senza cavallo non avrebbe avuto scampo nella furia della battaglia.
Ma Chetak raccolse tutte le sue forze e anche su tre gambe riuscì a riportare il suo cavaliere al campo amico, crollando poi a terra subito dopo e morendo letteralmente tra le braccia di Pratap.
Che per ricordare il gesto eroico del suo cavallo gli dedicò un cenotafio, proprio lì dove il suo destriero cadde.
L’impresa di Chetak è poi diventata oggetto di tanti canti ed epiche popolari, tale e quali da noi le gesta del Brigliadoro di Orlando: ma quella del cavallo grigio ferro testa di moro è una storia vera, anche se così lontana nel tempo e nei luoghi.
Un dettaglio: nell’iconografia popolare Chetak, nonostante tutto, è raffigurato con il mantello candido.
Licenza poetica, che però ci rende impossibile non ricordare Shaktiman, il povero cavallo grigio della polizia indiana a cui venne amputata un gamba (morì in seguito) dopo che un irresponsabile politico locale lo ferì deliberatamente a bastonate durante una manifestazione.