Torino, 28 gennaio 2019 – Paola Giacomini è a casa: qualche giorno di pausa e poi ricomincerà il suo viaggio iniziato nel giugno scorso dalle steppe della Mongolia e che terminerà a Cracovia, dove Paola consegnerà una freccia mongola alla Basilica di Santa Maria, nel centro di Cracovia: i suoi due cavallini mongoli la stanno aspettando in un monastero ortodosso russo, pronti a ripartire con lei (e la freccia) verso l’Europa.
Ma perché una freccia, e perché proprio a Cracovia?
I guerrieri di Gengis Khan arrivarono sin lì nel 1241, colpendo alla gola con una loro freccia un trombettiere polacco che stava dando l’allarme: accortosi della polvere sollevata dalle orde mongole in arrivo, ripeté diverse volte l’Inno a Nostra Signora che veniva suonato normalmente ad ogni apertura e chiusura delle porte della città, attirando così l’attenzione dei suoi connazionali e permettendo loro di prepararsi all’assalto, cui resistettero.
La precisissima freccia mongola aveva spezzato la sua ‘voce’ per sempre: ma da allora ogni giorno lo stesso inno viene ripetuto e si interrompe come allora sull’ultima nota suonata dal coraggioso trombettiere otto secoli fa.
Dopo 8 secoli abbiamo sostituito il terrore delle invasioni mongole con altre paure, e dimenticato tante altre cose: forse anche la storia di queste popolazioni delle steppe, così temute ma anche così affascinanti.
Vi ricordiamo qui chi erano e da dove venivano gli uomini di Gengis Khan e i loro cavalli, che conquistarono un impero in sella.
La Mongolia è fatta di un milione e mezzo di chilometri quadrati, pieni quasi solo di steppe e vento e deserto. E’ schiacciata tra la Russia a nord e la Cina a sud, a guardarla sembra un enorme corpo estraneo che prema sul grande paese sottostante, pesandogli addosso in modo fastidioso: e in effetti di fastidi al Celeste Impero la Mongolia ne ha creati sempre parecchi. E’ abitata da sempre da tribù nomadi grintose e aggressive dedite all’allevamento di pecore, bovini e cavalli.
Soprattutto cavalli. La steppa è un ottimo posto per allevare cavalli, vengono benissimo: ma non ci cresce praticamente nient’altro, quindi le uniche ricchezze di queste tribù tanto vivaci erano solo quelle che potevano brucare erba e spostarsi con le proprie gambe.
Nel 1162 (o giù di lì, la data non è molto sicura) al capo della tribù dei Qiyat nacque un figlio. Il capo si chiamava Yesugei, sua moglie Hoelun: l’aveva rapita l’anno prima ad una carovana merkita, e la ragazza si sarebbe rivelata un ottimo investimento.
Il bambino venne chiamato Temujin e allevato secondo la rigidissima didattica mongola: aiutare gli adulti era non solo un dovere ma anche una palestra fisica e mentale, quindi i bambini dovevano mungere gli animali, aiutare a sorvegliarli e proteggerli, imparare montare e usare l’arco e le altre armi e andare a caccia e combattere. Temujin era forte e capace, attaccava briga con tutti e prometteva bene: verso i dieci anni fu fidanzato ad una bimba che si chiamava Borte.
La piccola era figlia del capo della tribù Qongghiratt, e Yesugei accompagnò il figlio presso i futuri suoceri dove, come da costume, avrebbe passato alcuni anni. Ma Yesugei sulla via del ritorno a casa venne avvelenato, presso un accampamento in cui aveva cercato ospitalità: fece in tempo a montare in sella, raggiungere la famiglia e raccontare quello che era successo e poi morì. Hoelun si dimostrò coraggiosa quanto un uomo: si gettò all’inseguimento dei traditori e cercò di riunire sotto le insegne del marito i membri della tribù, ma questi non gradivano essere comandati da una vedova piena di figli piccoli a cui badare, e la lasciarono da sola.
Temujin era tornato con la madre, ma il loro clan una volta ricco e prospero di yurte, cavalli e guerrieri si era ormai ridotto ad una misera e povera carovana che cercava di sopravvivere tra le steppe. Da quella situazione disperata nacque il vero Temujin combattivo, travolgente e senza nulla da perdere: la sua voglia di rivalsa era così evidente che i clan più grandi vedevano già in lui un pericolo e cercarono di fargli abbassare la cresta umiliandolo con la kanga, una specie di gogna. Ma lui, ragazzino, riuscì ad uccidere il guardiano che lo sorvegliava colpendolo proprio con quel disco di legno che gli immobilizzava mani e testa e tornò nell’accampamento della madre. Appena libero dai ceppi ringraziò il Cielo Azzurro per la ritrovata libertà con un sacrificio, e cominciò a lottare per diventare un grande khan.
Il primo passo lo fece per vendicarsi di un furto: una banda di razziatori aveva portato via otto dei nove cavalli che possedeva. Temujin saltò in sella all’unico rimasto e galoppò, galoppò senza stancarsi né fermarsi, ma durante l’inseguimento un amico si unì a lui ed insieme recuperarono gli otto sauri e uccisero i ladri che provarono a inseguirli.
Non smise più di galoppare, Temujin: il suo coraggio richiamò i vecchi soldati di suo padre e i loro figli attorno alla sua yurta e il suo clan tornò di nuovo ad essere forte e numeroso.
Era implacabile con gli avversari e leale e generoso con gli amici, una ricetta vincente tra i mongoli, che rispettavano solo i più forti ed abili tra di loro e si ritenevano sempre liberi di abbandonare un capo se venivano delusi da lui: le steppe erano un mare d’erba solcato da yurte montate su carri tirati dai buoi, sempre in lento movimento dietro le mandrie di cavalli che erano arma, ricchezza e base fondamentale della loro vita di nomadi guerrieri.
Da forza nasce forza, i suoi alleati crescevano costantemente di numero e Temujin riusci a rovesciare anche le situazioni peggiori grazie alla sua costante reattività, in qualsiasi situazione: appena sposato con Borte gli venne rapita dai merkiti, il clan della madre, che voleva regolare i conti in fatto di spose rapite. Temujin preparò con cura una spedizione e dopo circa nove mesi attaccò i merkiti distruggendoli: Borte era salva e Temujin la riportò al suo accampamento con il bambino che aveva appena partorito.
Il piccolo venne chiamato Djuci, l’Ospite: la sua paternità era ritenuta incerta, ma Temujin lo considerò sempre il suo figlio prediletto.
Seguirono nuove mogli (i mongoli erano poligami), nuovi figli, nuovi alleati e sempre nuove, infinite battaglie e guerre di conquista. Grazie all’intelligenza e al carisma di Temujin una accozzaglia di clan in lotta tra loro si trasformò in breve tempo nella macchina bellica da conquista più potente di ogni tempo, la sua implacabile ferocia gli permetteva di annichilire i popoli conquistati che venivano poi governati dalla Yassa, una serie di leggi da lui promulgate e che erano assolutamente eque, moderne e atte a mantenere la pace sociale tra i tanti popoli diversi che arrivarono a comporre il suo impero.
Non si fermò mai Temujin, nemmeno dopo che era diventato Gengis Khan (traduzione letterale: Sovrano Oceanico) nel 1206. Nel 1211 l’Imperatore cinese Ning Tsung ebbe la pessima idea di mandargli una lettera dove gli chiedeva la sua sottomissione: appena gliela finirono di leggere Gengis Khan sputò in direzione del Trono del Drago, radunò 120.000 uomini, più di 300.000 cavalli, organizzò l’approvvigionamento d’acqua per far loro superare duemila chilometri di deserto dei Gobi e mosse verso le province occidentali cinesi. Per cinque anni Gengis Khan e il suo esercito misero a ferro e fuoco la Cina, novanta città «…furono distrutte in modo così radicale che i cavalieri potevano, senza pericolo di inciampare, attraversare nell’oscurità le zone devastate».
Poi, improvvisamente come era partito, Gengis Khan tornò verso la Mongolia: morirà pochi anni dopo, nel 1227, probabilmente a causa di una emorragia interna provocata dal suo cavallo che dopo averlo sbalzato di sella gli rovinò addosso.
La galoppata di Temujin era cominciata tanti anni prima, quando aveva solo nove cavalli: alla sua morte l’impero che aveva costruito arrivava sino al Mar Caspio e i suoi figli e nipoti lo fecero ancora crescere, raggiungendo le soglie dell’Europa e governando la Cina come imperatori sino al 1368.
Era certamente stato impietoso in guerra e coi nemici, ma la misura della crudeltà va tarata a seconda del luogo e del tempo in cui viene esercitata: era nato in un mondo crudele e per sopravvivere aveva dovuto imparare a essere più forte di tutti gli altri, una volta arrivato al potere aveva comunque fatto in modo di garantire pace, sicurezza ed equità a tutti i popoli da lui governati.
Probabilmente il migliore epitaffio di Gengis Khan, che era stato il giovane Temujin, l’ha fatto scrivere lui stesso su una stele del 1219:
«Porto gli stessi cenci e mangio lo stesso cibo dei miei palafrenieri. Considero il popolo come un fanciullo e tratto i soldati come fossero miei fratelli. I miei progetti sempre concordano con la ragione. Quando faccio il bene, ho sempre cura degli uomini. Quando mi servo delle miriadi di miei soldati, mi pongo sempre alla loro testa. Mi sono trovato in cento battaglie e non ho mai pensato se c’era qualcuno dietro me. Ho affidato il comando delle truppe a quelli in cui l’intelligenza era pari al coraggio. A chi era attivo e capace ho affidato la cura degli accampamenti. Agli zotici ho fatto mettere in mano la frusta e li ho mandati a sorvegliare le bestie».
Fu tumulato nella sua steppa e sopra la sua tomba vennero fatti galoppare centinaia di cavalli: ed è ancora lì, da qualche parte, sotto il Grande Cielo Azzurro.