Roma, 25 maggio 2018 – In questi giorni a Piazza di Siena li vediamo spesso, impegnati durante le cerimonie ufficiali a rappresentare la Repubblica Italiana e le sue tradizioni cavalleresche: sono i Lancieri di Montebello, che in questa particolare occasione sfoggiano le loro belle uniformi storiche.
Ma chi sono questi lancieri, che ad uno sguardo superficiale possono apparire anacronistici con la loro arma bianca e il colbacco nero sotto il sole della Capitale?
Per cominciare, è l’unico reggimento di cavalleria italiano che prende il nome da un fatto d’armi: è stato costituito nel 1859 a Voghera come «Cavalleggeri di Montebello » grazie a tre squadroni forniti da «Novara», «Aosta» e «Monferrato» secondo l’usanza di dar vita a nuove unità trasfondendovi il materiale umano, il sangue si può dire di quelle già esistenti che vengono ricordate proprio attraverso la denominazione dei diversi squadroni, come fossero nomi cari di famiglia.
Sciolto nel 1920, ricostituito come Raggruppamento Esplorante Corazzato «Lancieri di Montebello» nel 1942, nuovamente sciolto il 16 settembre del 1943 e rinato nel 1950 a Roma come Gruppo Squadroni, per poi tornare reggimento il 23 settembre del 1992. Fa parte della Brigata Meccanizzata «Granatieri di Sardegna», le fiamme che lo contraddistinguono sono quelle a tre punte tipiche della cavalleria, di colore verde.
Se il Sistema Naturale di Equitazione ha mai avuto una casa è stata Tor di Quinto: ieri solo campagna della periferia romana, dove sapevano convivere ineffabili avanzi di storia imperiale e pecore al pascolo oggi i suoi 32 ettari di verde sono inglobati nella metropoli capitolina ma è ancora la sede del Centro Ippico Militare del Reggimento Lancieri di Montebello, l’8° tra le nostre unità di cavalleria.
Sino alla fine dell’800 questi terreni erano di proprietà del Marchese Luciano del Gallo di Roccagiovine. Aristocratico, imparentato coi Bonaparte per parte di madre oltre che ottimo ufficiale e gran cavaliere: era lui il Direttore del primo Corso complementare di equitazione di campagna nel 1891, quando Tor di Quinto era appena diventato un distaccamento della Reale Scuola di Applicazione dell’Arma di Cavalleria di Pinerolo.
In quell’anno Caprilli era al corso magistrale, su in Piemonte, affidato alla direzione del cavalier Paderni: verrà a Tor di Quinto nel 1892 dove si distinguerà proprio grazie alla sua inclinazione per «l’esercizio del cuore che dà l’equitazione all’aperto». Il marchese di Roccagiovine donerà poi questi terreni per costruire l’ippodromo militare della capitale, legando quindi a doppio filo il suo nome alla nascita della equitazione italiana.
«Noi Lancieri siamo i veri custodi delle nostre tradizioni equestri» ci ha raccontato qualche tempo fa il Colonnello Giancarlo Cati, «Montebello è l’unico reggimento dell’Esercito Italiano che ha ancora in organico uno squadrone montato e la pratica sportiva fa sempre parte integrante del programma di addestramento di cavalli e cavalieri. La stragrande maggioranza dei campioni della nostra equitazione proviene dai ranghi della cavalleria: a Pinerolo formavano i cavalieri, qui era la vera fucina dove li tempravano sulle difficoltà maggiori. Ogni anno una cinquantina tra i migliori giovani ufficiali di cavalleria veniva mandata qui a perfezionarsi non solo nell’equitazione di campagna ma anche nelle corse in piano, sugli ostacoli e nel polo, che è un ottimo esercizio per raffinare ulteriormente assetto ed equilibrio e, come diceva il generale Pietro Giannattasio (1931-2004, il Centro è stato dedicato a lui nel 2005) il più bello sport per chi pratica l’equitazione perché univa a questa spirito di squadra, agonismo e galateo».
Ma per tornare alle origini: Caprilli corse proprio qui, nel 1892 la sua prima corsa in ostacoli e nel 1894 diventò istruttore a Tor di Quinto: lontano dal metodo coercitivo e violento della vecchia scuola (ma anche Paderni e Roccagiovine avevano già cominciato un processo simile, ricordiamolo) cominciava ad insegnare ai propri allievi i principi del suo Metodo.
Nei lunghi galoppi dietro il marchese di Roccagiovine, master della Società Romana per la caccia alla volpe, il giovane tenente Caprilli brillava per le proprie capacità (pur trovandosi ancora in un periodo di transizione tecnica); a ottobre del 1895 venne tentata per la prima volta la famosa discesa di Tor di Quinto, una scarpata quasi verticale che richiedeva un grande coraggio – oltre ad assetto e mano esemplari, per sperare di sopravvivere.
Ma a quei tempi non era certo lo sport l’obiettivo principale degli istruttori di equitazione militari, la cavalleria doveva servire in guerra e il SNE di Caprilli era prezioso perché:
a) Metteva a cavallo più persone, in meno tempo
b) Rendeva la manovra più veloce
c) Rendeva la manovra più sicura.
Da ricordare che era qui, a Tor di Quinto, che venivano gli ufficiali di tutta Europa (o quasi: i francesi si portarono un caprilliano oltralpe per studiarne con calma i segreti) per imparare il Metodo ed era qui che venivano portate le delegazioni militari in visita per impressionarle con le capacità equestri dei binomi cresciuti alla sua scuola.
Non vogliamo ripercorrere qui tutta la vita di Federigo Caprilli, ma è importante ricordare quanto Tor di Quinto (e il suo ippodromo, e le galoppate nella campagna romana, le prove di coraggio e tecnica qui disseminate sotto forma di ostacoli naturali) siano stati fondamentali nel processo di elaborazione del Sistema.
Facciamo un bel salto e torniamo ai nostri giorni; siamo nella sala della palazzina Reale costruita in piena Belle Epoque che dà direttamente sulla pista e c’è qualcosa di deliziosamente incongruente nello scoprire le sottigliezze del montare con la lancia, arma antica quanto la cavalleria stessa, raccontate da chi si occupa ormai di formare solo cavalieri sportivi.
Ma l’orgoglio di chi ne parla è così sincero che ci appassioniamo: la lancia si porta infilata nel bicchierino di cuoio che è affibbiato alla staffa destra, la sua lunghezza incide ovviamente sull’equilibrio del cavaliere rendendo più complesso galoppare a mano sinistra, vista la tendenza ad oscillare.
Ma c’è anche un lato positivo: eventuali tensioni del cavaliere si trasmettono più alla lancia che alla bocca del cavallo e i lancieri si piccano di avere mano molto più morbida, quando si tratta di maneggiare la sciabola, che non i cavalieri non addestrati alla loro specialità.
E poi la consapevolezza profonda di essere unici: fuori dal tempo, certo, rappresentativi e non destinati a caricare il nemico a cavallo – ma la memoria di quei giorni è nelle loro mani, assieme alla lunga lancia in legno di frassino con la banderuola azzurra che sente il vento, e l’andatura del cavallo.
Finiamo le chiacchiere, visitiamo scuderie e museo del reggimento e conosciamo, dal vero, i posti che hanno visto lavorare tanti cavalieri che hanno fatto onore al nostro Paese.
Vediamo dall’alto il terribile scivolo rappresentato in tante fotografie d’epoca, ci immaginiamo il tintinnare degli speroni di quel bel tenente livornese dal sorriso fiducioso mentre traversava questo stesso piazzale selciato, con la testa piena di pensieri e gli occhi accesi d’entusiasmo, che non gli mancò mai la convinzione delle sue idee. Adesso nel cortile sono parcheggiati anche due autoblindo Centauro, i cacciacarri in dotazione al Gruppo Squadroni esplorante di Montebello.
Mi spiegano che in fondo anche le blindo sono come i cavalli – una volta terminata l’operazione hanno bisogno come loro di attenzioni e comunque, sorride uno di loro e sospirando, anche quello delle missioni all’estero è un lavoro che qualcuno deve pur fare. Molti di questi uomini sono stati in missione per le Nazioni Unite, alcuni non sono tornati: come il sottotenente Andrea Millevoi, colpito da un cecchino a Mogadiscio e premiato con la medaglia d’oro al Valor Militare.
Aveva 21 anni, ci hanno presentato il casco che portava quando è stato ucciso.
Sì, proprio come se fosse una persona di riguardo che non potevamo mancare di conoscere e salutare. Perché le cose possono rappresentare molto più di un simbolo formale: possono ricordarci quello di cui abbiamo bisogno per diventare migliori di come siamo, anche a cavallo e possono darci l’occasione di ringraziare, attraverso di loro, chi non c’è più.
Ecco chi sono i Lancieri di Montebello.