Bologna, lunedì 13 aprile 2020 – Lo sport equestre azzurro ha vissuto il più grande trionfo agonistico nel 1964 alle Olimpiadi di Tokyo: medaglia d’oro individuale e medaglia d’oro a squadre in completo. Mai prima nella storia (e per il momento mai dopo) l’Italia alle Olimpiadi aveva conquistato due medaglie d’oro nella stessa specialità dell’equitazione agonistica. L’artefice di questo sensazionale risultato è stato il marchese Fabio Mangilli, il quale più che un tecnico e selezionatore è stato un vero e proprio artigiano che ha plasmato con le sue stesse mani cavalli e cavalieri per infine ottenere l’esito migliore (non senza polemiche precedenti, dato che una certa parte del mondo degli addetti ai lavori considerava la spedizione dei ragazzi del completo a Tokyo come un semplice spreco di denari e nulla più… ). Poi sul campo di gara il… braccio armato è stato Mauro Checcoli in sella al grigio Surbean: la sua meravigliosa vittoria individuale ha dato il successo anche alla squadra, la cui formazione allineava altri tre favolosi cavalieri (Alessandro Argenton, Paolo Angioni e Giuseppe Ravano: Scottie, King e Royal Love i loro cavalli).
Ma ora qui non puntiamo l’attenzione tanto sul trionfo di Tokyo, quanto piuttosto su quello che è accaduto dopo Tokyo per mettere in risalto la sensibilità, l’onestà e il rigore intellettuale di un uomo del calibro di Fabio Mangilli. Il quale alle Olimpiadi di Città del Messico 1968 ripropone la stessa squadra di Tokyo (ma Argenton su Diambo de Nora e Giuseppe Ravano su Lord Jim): e Mauro Checcoli con Surbean vi arriva con i favori del pronostico. Ma le cose non vanno secondo gli auspici, anche perché il giorno del cross un diluvio letteralmente apocalittico porta all’esondazione un torrente le cui acque arrivano al punto di subissare perfino alcuni ostacoli del percorso. La squadra azzurra è eliminata, così anche il binomio Checcoli/Surbean.
Racconta Mauro Checcoli: «Tre mesi prima della partenza per il Messico durante un galoppo veloce Surbean si è fatto male. È stato un mese fermo in scuderia. Un cavallo così, fermo in scuderia… C’era un veterinario svizzero, del quale non voglio fare il nome perché non ne ho grande stima, che diceva che dopo lo stop il cavallo stava benissimo, che non aveva bisogno di allenamento, che era in una forma strepitosa. Per me non era così. Il cavallo è partito quindi in una gara a 2.200 metri di altitudine in condizione fisica imperfetta. Aveva fatto solo grandi trottate ma non aveva più galoppato. Stiamo parlando di un cavallo che a Tokyo aveva fatto prestazioni formidabili: lo steeple a 800 metri al minuto invece che a 690, il cross a 670 invece che a 570, nelle marce arrivando sempre in anticipo… dopo i 32 chilometri complessivi della prova di campagna, durante gli ultimi metri di galoppo defatigante, Surbean si era messo a sgroppare perché uno spettatore aveva improvvisamente aperto un ombrello! Dopo 32 chilometri lui sgroppava… Ecco, Surbean era così. A Città del Messico invece durante i tremila metri dello steeple, dei quali gran parte in leggera salita, il cavallo si è sentito stanco, ha smesso di galoppare. Un cavallo che io avevo sempre dovuto tenere in mano adesso lo dovevo spingere… Poi si è scatenato l’uragano, pioggia e vento fortissimi, un diluvio che non si vedeva da qui a lì… Surbean era depresso, capivo che non si sentiva bene. Ha fatto il numero uno ed è rimasto appeso con i posteriori: era un ostacolo enorme… Idem il numero due e il tre, il quattro l’ha fatto alla frusta, sul numero cinque si è fermato. E io me ne sono venuto via: non avrei potuto farlo continuare in quelle condizioni… Aveva ragione Mangilli: il cavallo si è depresso perché non si sentiva fisicamente all’altezza. Era una questione morale, sì, ma dovuta a una situazione fisica».
Aveva ragione Mangilli, dice Mauro Checcoli. Ma… ‘ragione’ a quale proposito? Lo spiega lo stesso Fabio Mangilli in un articolo pubblicato sulle pagine della rivista Sport Equestri di gennaio/febbraio 1976 e scritto qualche giorno dopo la morte di Surbean. In questo pezzo ci sono delle ‘cose’ straordinarie: l’amore per un cavallo; lo sguardo acuto di chi sa vedere cose invisibili ai più; il senso di responsabilità nei confronti delle aspettative di un pubblico, di una nazione, di una squadra; la fiera capacità di dichiararsi manchevole non tanto nei confronti di altri, quanto piuttosto di sé stessi; l’incrocio tra sentimento e ragione, tra passione e calcolo, tra volere e dovere. Ci sono tante cose, dentro queste parole, e dunque bisogna leggerle perché rappresentano un valore che non ha limiti né di età né di tempo. A partire dal titolo: “Questa è la mia autocritica” (quanti tra noi oggi sono davvero capaci di una reale autocritica… ?). Eccole, le parole del marchese Fabio Mangilli.
«Nell’estate del 1962, con Riccardo e Carlo D’Angelo, mi recai in una scuderia nei pressi di Dublino per vedere un cavallo da destinarsi al concorso completo. Il soggetto che ci fu presentato non piacque e fu scartato. Non avevamo fretta e, gironzolando curioso, entrai nella scuderia quasi deserta. In un box vidi un cavallo grigio, legato con la capezza a una campanella: Surbean – 7 anni, p.s.i da Monsieur l’Amiral e Supriya. Ancor prima che dalle sue forme fui colpito dalla sua espressione carica d’ardore, vitalità e intelligenza. Legato in scuderia si presentava nello stesso atteggiamento che poi prendeva davanti allo starter. Chiesi di poterlo vedere e mi fu risposto che il cavallo era già venduto e doveva partire per gli U.S.A. La compravendita era stata fatta da agenzie e probabilmente, con un telegramma, era stato richiesto un cavallo di p.s. grigio. Data la mia insistenza gli interessati hanno certamente pensato che in Irlanda avrebbero trovato un altro grigio da mandare oltre oceano e Surbean fu sellato e condotto in giardino montato da un ragazzotto che gli teneva la testa completamente rovesciata. La ragione di tanta prudenza la scoprii più tardi, a casa, quando molto, troppo spesso si liberava del cavaliere con violenza inaudita. Possiamo vederlo saltare? Per due volte la barriera, appoggiata sullo schienale di due sedie, volò sollevata dagli avambracci. Feci interrompere la dimostrazione e Surbean fu acquistato. Arrivati ai Pratoni del Vivaro costò, tutto compreso, L. 3.255.215.
«Il 2 agosto del 1962 iniziò il lavoro. Non tardò a dimostrare qualità eccelse; straordinaria attitudine al salto, una energia potente che a volte sconfinava nella violenza. La sua fortissima personalità rappresentava la vera seria difficoltà del suo addestramento. Non tollerava certo, da parte del cavaliere, modi bruschi e, nel primo anno in modo particolare, si poteva ottenere la sua benevola collaborazione solo chiedendogli “per piacere” e dicendogli poi “grazie”. Nel rettangolo avrebbe potuto raggiungere un livello elevato di correttezza e armonia ma, disponendo di soli due anni per un lavoro tanto complesso, non si poteva pretendere di andare oltre a determinati limiti. Comunque la sua prestazione era tale da non compromettere il risultato finale delle prove. Sull’ostacolo riusciva ad arrivare quasi sempre giusto e, quando non lo era, risolveva il problema con esibizioni acrobatiche e dimostrazioni di potenza ridicolizzando qualsiasi difficoltà.
«Essendosi trovato, al momento delle Olimpiadi di Tokyo, in una situazione morale ideale e in forma fisica perfetta, si è compiaciuto di dare una grande soddisfazione agli sportivi italiani avendo trovato in Mauro Checcoli il collaboratore che gli era più congeniale. Ha trascorso gli ultimi sette anni della sua gloriosa vita in serena libertà, nei verdi prati del Vivaro, assieme ai suoi compagni di squadra riposando nelle belle e accoglienti scuderie, seguito amorevolmente da tutti coloro che vivono al Centro Federale. S’è spento per collasso cardiaco. Pochi cavalieri e appassionati hanno la fortuna di incontrare, nella loro vita sportiva, un simile cavallo. Io sono fra questi; m’ha dato le più grandi emozioni quand’era vivo e ora lo ricorderò sempre con amorevole riconoscenza.
«Nel corso della preparazione ai Giochi Olimpici di Città del Messico, mi sono lasciato ingannare dalla sua forma fisica smagliante, non volendo dare il giusto peso a una piccola ma netta contestazione con la quale mi disse d’essere, in fondo, un po’ seccato di queste lunghe prove. Avvenne al non difficile concorso completo svizzero di Maienfeld, nel 1967, dove, nello scrosciare dell’acqua di un ruscello trovò la scusa per mettersi in difesa. In quel momento capii che non avrei più potuto concedergli la mia fiducia, ma non fui abbastanza distaccato e deciso per separarmi da lui. Perseverai nel continuare la sua preparazione. Tecnicamente sempre mi soddisfece, ma qualcosa nel suo morale era nascostamente cambiato. La sua collaborazione in esercizio fu sempre generosa ma, evidentemente, non era più disposto ad affrontare lo sforzo totale, conclusivo.
«Come già avvenne prima di Tokyo, anche per il Messico il suo allenamento fu condotto in modo tale da rendere possibile la richiesta del massimo sforzo, distanze e velocità, solo nei percorsi olimpici e lui, in Giappone, si prodigò con brio disinvolto superando allegramente i limiti delle velocità massime. Nello steeple e nel cross fu il cavallo più brillante in assoluto. Nella terza prova, concorso ippico, Checcoli lo montò come in un percorso d’esercizio e non commise errori. Al Messico invece, nonostante fossero passati quattro anni dal suo precedente grosso impegno, l’atmosfera della gara gli fece intuire quale compito era chiamato ad assolvere e non accettò l’agone. Certamente non s’è trattato di un calo di forma dato che, fino a quel momento, nulla era visibilmente cambiato in lui e la sua esuberanza non era venuta meno. Lo vidi passare ai 2000 metri dello steeple, bene in mano e alla velocità di 700 metri al minuto. Calò di colpo; non galoppò più. Quando mi ripassò davanti iniziando la seconda marcia, fase C, era in ottime condizioni e per nulla affaticato. In quella marcia si dimostrò svogliato e disinteressato al punto da lasciarsi superare da altri concorrenti; fatto per lui inaudito. Nel cross partì forte contro il primo ostacolo, prendendo una partenza molto anticipata e picchiò rudemente il nodello posteriore sinistro. Per parecchi secondi accusò il dolore, poi ripartì per rifiutare una volta il secondo ostacolo. Si fece eliminare più avanti ma in realtà già dopo i primi duemila metri dello steeple aveva rinunciato. Prima di allora certamente ne avrà fatti anche lui dei rifiuti, ma ben pochi perché, per quanto ci ripensi, non riesco a vederlo, con gli occhi della mente, fermo davanti a un ostacolo e non credo che si tratti della cecità dell’amore! Rientrò in scuderia in perfette condizioni fisiche che mantenne fino al suo ultimo giorno.
«Ecco, in breve, la storia di Surbean, dei tredici anni che trascorse con noi. Sulla collina, ai Pratoni del Vivaro, una lapide segna il punto dove ora riposa e lo ricorderà a chi ne ha seguito lo smagliante successo. Mentre lo capii e lo seppi interpretare nella preparazione per Tokyo, sbagliai psicologicamente in quella per il Messico. Per una debolezza morale e affettiva mi lasciai ingannare e fui portato a commettere un errore tecnico. Grave colpa per chi dirige una preparazione. Questa è la mia autocritica».
Ecco, queste sono le parole di Fabio Mangilli: uno degli uomini di cavalli più straordinari tra quelli che hanno rappresentato i colori dell’Italia nella storia dello sport equestre mondiale.